sabato 23 gennaio 2010

"Sull'utilità e il danno del latino per la scuola"


Abstract

Una premessa teorica appare necessaria a proposito della questione dei rapporti tra lingua latina e l’età contemporanea o, meglio, le disponibilità della rete informatica, dal momento che la vera e propria rivoluzione introdotta dalle nuove tecnologie ha universalmente aperto campi finora insospettati della comunicazione e dell’informazione. Una riflessione sul latino – disciplina che in sé è generalmente percepita distante dalle nuove generazioni – non può prescindere da questa logica di ferrei collegamenti.

1. Dal livello mitico di Άλήθεια alla questione della tecnica

a) È nella civiltà greca che si crea la congerie di termini e di concetti che prepara alla critica storica, dal primo stabilirsi del problema della verità fino alla questione della tecnica affrontata da Martin Heidegger. Certo, un importante avvio al problema della verità fu dato proprio dall’opera di Heidegger Essere e tempo (1927), in cui il filosofo tedesco accoglieva l’interpretazione di Άλήθεια come non-occultezza, disvelatezza e vedendo in Άλήθεια il fenomeno originario della verità.
Una corretta definizione strumentale della tecnica la identifica come un mezzo in vista di un fine, ma questa sua strumentalità non dice che cosa sia l’essenza della tecnica, poiché la constatazione non svela necessariamente ciò che le sta davanti nella sua essenza. Sennonché τέχνη non è solo il fare manuale ma si eleva soprattutto verso la produzione e la ποίησις, per cui la tecnica dispiega il suo essere nell’ambito nel quale accade il disvelamento dell’ἀλήθεια. Ma appunto la tecnica moderna, faceva notare Heidegger, a differenza della τέχνη, è una provocazione e l’essenza della tecnica è impositiva e non è più sufficiente una definizione strumentale della τέχνη.
La tecnica non è il pericolo ma il pericolo è nell’essenza della tecnica. L’influenza di Heidegger fu notevole e la sua proposta fu seguita quasi da tutti, ma Detienne si pone in polemica con questo filone della ricerca iniziando ad affrontare il trapasso dal μῦθος al λόγος.

b) Detienne utilizza fonti molto disparate creando la sua equazione tra memoria e verità. La verità non è divinizzata, ma è un oggetto che compare in forma aggettivale e dopo un verbum dicendi per asserire il vero. La memoria è strettamente connessa alla dimenticanza ma non è il suo opposto (ἀλήθεια/ἀ-λήθεια). La verità si contrappone all’inganno in una società e in una struttura di pensiero in cui ἀλήθεια e la parola di lode si allineano.
Il passaggio dal mito greco alla ragione fu sentito molto meno di quanto si dica. Anche in Platone la frattura tra μῦθος e λόγος non è così determinata. Collegando memoria e verità, per Detienne il poeta, l’indovino e il re di giustizia sono accomunati da una medesima funzione sacrale. Ma qual era il valore della memoria nel mondo antico?
La prima associazione era la Musa e la memoria (le Muse sono figlie di Μνημοσύνη).
Nel mondo moderno la memoria è legata al tempo, mentre nell’antichità essa non corrisponde a una sistemazione nel tempo ma se ne pone al di fuori.
Μνημοσύνη continua ad avere la sua funzione attraverso la genealogia. Apollo presiede alla funzione del vate, l’aedo e l’indovino hanno in comune il dono della veggenza, che non significa vedere materialmente: Calcante ed Omero sono ciechi (Il., I, 70; Teogonia, 32-38). L’indovino privilegia la previsione verso il futuro, mentre il poeta vede il tempo passato. Omero vede il tempo antico fissando la genealogia dell’età eroica laddove in Esiodo esiste la ricerca delle origini, che conferisce al linguaggio il carattere della sacralità. In genere le invocazioni alle Muse precedono i nomi nei cataloghi, che sono l’archivio di una società senza scrittura (il catalogo rappresenta la possibilità di andare verso il passato).
Nella Teogonia di Esiodo il canto delle Muse è ἐξ ἀρχῆς. Dal pensiero mitico si passa al pensiero razionale che tuttavia recupera alcuni aspetti del pensiero mitico: attraverso l’iniziazione orfica o eleusina è possibile ricostruire un percorso di questo genere. Esiodo sottolinea che la sua è poesia di verità. La consapevolezza poetica nasce in lui nella distinzione tra Musa menzognera e Musa veritiera: l’ispirazione delle Muse è strettamente connessa alla persona che la canta, cioè alla verità della poesia, per cui il cantore non perde la propria personalità. Così ogni aedo dirà cose veritiere, mentre prima di Esiodo il cantore era solo espressione della poesia magico-religiosa e, del resto, nella Poetica Aristotele formulerà la distinzione tra il vero fantastico e il vero storico (la poesia si occupa delle cose che potrebbero avvenire, la storia delle cose che sono avvenute). Esiodo non fa che constatare due diversi tipi di poesia: nel momento in cui si pensa alla tradizione come a un dato di verità, non c’è critica. Quando si insinua la possibilità delle differenze tra cantore e cantore, proprio allora si introduce anche la critica.

c) Da un punto di vista etimologico, Άλήθεια indica l’oggetto che si fa chiaro, che si impone a chi lo vede. È la non-occultezza, la non-dimenticanza. In Omero, il termine segnala la precisione, la chiarezza, l’esattezza (una cosa è vera se è chiara). Nel framm. 21 Solone accusa di menzogna i poeti, come faranno i presocratici: il discorso di Omero sugli dèi è turpe, ma non per colpa degli dèi, bensì dei poeti menzogneri.
Pindaro porrà una sua critica ad alcuni miti non in se stessi ma esclusivamente per come sono stati trattati da altri autori a lui precedenti. In Olimpica, X, 4-5, Άλήθεια è detta figlia di Zeus (il termine ἀλήθεια si trova anche in Parmenide):

ὦ Мοῖσ᾿, ἀλλά σύ καί θυγᾴτηρ
Άλάθεια Διός, ὀρθᾷ χερί
ἐρύκετον ψευδέων
ἐνιπάν ἀλιπόξενον

(tu, o Musa, e tu anche verità figlia di Zeus, sollevate la mano, arrestate l’onta d’inganni che frodano l’ospite).
Pindaro in Nemea, IV, 23 aveva infatti detto che l’abilità del poeta (σοφία, che non è la saggezza ma la poesia) inganna (κλέπτει) seducendo con racconti fantastici, e ricorda poi il regno della fantasia che sfugge alla prova del tempo a cui deve sottoporsi la verità dei fatti. Pindaro distingue la verità storica dalla pseudo-verità, e anche i presocratici fanno questa distinzione. Ma mentre Esiodo aveva semplicemente affermato la presenza della sua poesia senza condannare l’epica, Pindaro condanna queste bugie simili a verità e afferma che l’errore della menzogna è sempre riconosciuto nel tempo. Sembrerebbe che Pindaro si ponga con maggiore veemenza critica rispetto a Esiodo, ma la sua non è ancora una critica storica. Una tradizione è da lui rifiutata rispetto ad un’altra semplicemente perché non sono gli dèi ad essere protagonisti.

d) La filosofia di Parmenide essendo la filosofia dell’essere in quanto è, ci orienta verso l’equazione del filosofo uguale al vate, al un mago (lo sciamanesimo greco), nella fase orale della Grecia arcaica (è la tesi di Giorgio Colli).
La preistoria dell’ἀλήθεια filosofica ci porta verso l’indovino, e la poesia ha lo stesso oggetto (riguardo alle cose che furono, che sono e che saranno). Si stabilisce così anche un’equazione col re di giustizia, ispirato dal potere divino. La poesia in quanto ispirata dagli dèi è vera.
Detienne in I maestri di verità nella Grecia arcaica (1977) ha presente lo strutturalismo nel collegamento tra memoria e verità. La lingua che noi parliamo è strutturata sul concetto logico della contraddizione (bugia è il contrario di verità, amore è il contrario di odio, ecc.), di origine logico-formale aristotelica. Il mondo mitico è, viceversa, pre-logico, ambiguo (i contrari, l’amore e l’odio sono strettamente connessi).
In Esiodo il passato è origine primordiale della realtà. Vernant individua il senso religioso conferito al poeta che è autore di un messaggio sacro. Non c’è separazione tra passato-presente-futuro, perché le divinità non muoiono (nel mito ittita, per inciso, le divinità muoiono). Allontanandoci dal presente, ci distacchiamo allora solo dal mondo visibile ma senza la parola del poeta non possiamo accedere all’invisibile. La storia che Μνημοσύνη canta è un deciframento dell’invisibile, una geografia con l’Olimpo in alto e il Tartaro in basso. La memoria non abolisce il tempo né lo ricostruisce. Invece, nel linguaggio mitico la memoria getta un ponte tra un mondo dei vivi e l’al di là.
Detienne si richiama ai principi di semantica strutturale che vogliono il metodo della sincronia, che tuttavia egli deve ampliare per la scarsezza dei testi antichi prendendo in considerazione anche il metodo diacronico ed esaminando il livello mitico di Άλήθεια. Lo studioso francese pone in luce le variazioni di analogia che caratterizzano la concezione arcaica di Άλήθεια e la legano ad altri concetti. Segna distintivi della parola efficace magico-religiosa del poeta, che è dotato di onniscienza divinatoria e la sua parola è asserzione di verità, il poeta ispirato equivalendo in questo modo al profeta e al re di giustizia. Verità e realtà dunque vengono a coincidere, con la differenza che la parola del poeta può creare anche l’illusione della realtà (in questo caso diventa strumento di menzogna e di inganno).

e) Nello stadio mitico un determinato concetto può porsi nel suo opposto: nella Teogonia (v. 27) le Muse possono dire delle menzogne simili a verità, in uno stadio intermedio tra il mitico e il razionale. Questa logica dell’ambiguità si trasforma nella logica della contraddizione, tipico della sofistica ma anche delle sette religiose (bene/male, buono/cattivo, giusto/ingiusto, ecc.). Per il passaggio dal μῦθος al λόγος fu ovviamente necessario l’avvento della struttura sociale della πόλις ma, in definitiva, Detienne
1. esclude dalla sua analisi ogni aspetto profano;
2. applica la metodologia del campo semantico;
3. individua ambienti sociali che conferiscono ad Άλήθεια una diversa caratterizzazione (se si parte da una Άλήθεια differenziata, questo concetto corrisponde ad una valutazione razionale del concetto stesso).
La verità del poeta è insomma assertoria, nessuno la contesta, nessuno la dimostra perché, derivando dalla divinità, essa è verità. Se il poeta è veramente ispirato, infatti, se egli è veggente, anche la sua parola è parola di verità ed è dotata di veggenza. Ma nel passaggio tra Memoria-Musa-Άλήθεια soltanto Μνημοσύνη e Musa hanno valenza mitica. Άλήθεια non ha comunque ruolo di potenza religiosa: sono realtà religiose solo la Musa e la memoria. La bellezza del canto, da parte sua, non è solo naturalmente la bellezza formale, ma anche quella del canto nel suo contenuto. Calliope accompagna i re. Il canto ha la funzione di argomento che si canta, accompagnando anche i re venerandi.

In Heidegger, l’imposizione provocante della tecnica moderna nasconde il disvelare come tale e quindi nasconde ciò in cui accade la verità-ἀλήθεια. Non c’è nulla di pericoloso nella tecnica. C’è pericolo, piuttosto, nel mistero dell’essenza (ambigua) della tecnica (irreversibile), che consiste nel mistero della sua imposizione. L’essenza della tecnica finisce con l’essere il pericolo, il quale porta in sé la salvezza. Se l’essenza della tecnica è il pericolo, la salvezza è nel pericolo che è l’essenza della tecnica.

2. L’essenza del moderno è nel classicismo

a) Questa è una riflessione che intanto vuol smitizzare una volta di più la vexata quaestio dell’applicabilità/utilità pratica della cosiddetta “lingua morta”: problema che, nei termini errati in cui è posto dal profano, è il medesimo che allora potrebbe affacciarsi sull’applicabilità/utilità pratica del sapere umanistico in generale, poiché la conoscenza della lingua latina è evidentemente propedeutica alla conoscenza di quella letteratura, e quindi è preposta alla fruizione del discorso estetico-culturale che interseca l’età antica, ivi includendo non solamente lo specifico letterario ma anche una più completa e diretta conoscenza del mondo classico tramite, ad es., il godimento delle visite archeologiche (gli scavi di Pompei e di Ercolano restano sempre il rimando migliore).

b) Da italianista, e anzi proprio perché in questa veste, Matteo Palumbo, nell’introduzione a Leopardi e l’antico di Marcello Gigante ha recentemente messo in rilievo non solo la stretta connessione tra l’opera letteraria del recanatese e il fondamento della cultura classica (che costituisce l’argomento del libro) ma anche e soprattutto ha ribadito come la condizione essenziale del moderno consista proprio nel suo classicismo:
“La compresenza organica della classicità, composta dalle voci autorevoli dei suoi autori, con la sensibilità disperatamente moderna dell’autore dei Canti e dello Zibaldone è una ragione teorica da cui non si può prescindere. Parafrasando un celebre passaggio di Gianfranco Contini, si potrebbe aggiungere che proprio la modernità è la condizione del suo classicismo. Assimilando il sapere di mondi lontani, mantenendoli ancora attivi nelle sue riflessioni e nelle sue architetture poetiche, Leopardi, di fatto, svolge la storia della lirica verso orizzonti ancora inesplorati. Dentro di lui resta, tuttavia, l’eco di quei pensieri e di quelle parole”.
[1]
Va da sé che qui non è in questione Leopardi in quanto Leopardi ma piuttosto - una volta messe da parte ormai obsolete e ampollose suggestioni retoriche e mitologie antichiste mal interpretate - il rapporto che deve attuarsi e stringersi tra le due epoche, anche se così irrimediabilmente lontane nel tempo, se non si vuol scadere in un’operazione artificiosa e priva di validità scientifica. Viceversa, nel Saluto al Congresso “Leopardi e Napoli”. (Napoli 14 gennaio 1999), per l’appunto Marcello Gigante aveva occasione di esprimersi nei seguenti termini, a partire da un riferimento a se stesso:
“Filologo classico ho seguito e cerco di seguire i meravigliosi sviluppi della attuale stagione critica che sottolinea nel Leopardi l’unità del poeta e del pensatore sia che prevalga la ‘meditazione’ sia che prevalga il ‘canto’, i due poli formulati da Cesare Galimberti, a cui dobbiamo anche la realizzazione di un volumetto che raccoglie testi di Friedrich Nietzsche Intorno a Leopardi (1992). Nietzsche trama la Seconda Inattuale sull’utilità e il danno della storia nella vita di motivi sovrastorici e immagini derivanti dalle Operette e dai Canti; Nietzsche nella suggestione niebuhriana contrappone la modernità del filologo italiano al grigiore degli eruditi tedeschi […].”
[2] Quando ci si addentra nell’antico, il nome di Nietzsche è difatti sempre d’obbligo a causa della sua particolare formazione filologica, transvalutata in seguito nella ricostruzione genealogica, tuttora discussa, dell’intera cultura occidentale.

c) Di seguito si vorranno puntualizzare concetti divulgati in modo erroneo e a cui la consuetudine quotidiana ci ha resi purtroppo assuefatti. C’è una notevole quantità di testi in latino reperibili on line, la qual cosa dimostra la vitalità del latino specialmente dove essa è rappresentata da un uso funzionale della comunicazione contemporanea.

I. La pronuncia scientifica della lingua latina

Se la rete copre l’intero cyberspazio, se le culture particolaristiche vanno scomparendo dietro il fenomeno, dai tratti inquietanti, della globalizzazione dell’economia e della cultura, è pur vero che differenziazioni specifiche vengono a determinarsi, nella fattispecie, già a partire dalla pronuncia del latino, quale è quella pacificamente adottata nelle nostre scuole. Da noi in Italia è prevalente la pronuncia medievale della lingua latina, coincidente con quella della Chiesa. In altri termini, nelle scuole italiane si legge un latino in modo simile a come vengono pronunciate le parole della nostra lingua madre. Omettendo la constatazione che, per ragioni di usura semantica, in fondo noi continuiano a leggere e parlare il latino per come esso, in due millenni, si è trasformato in italiano, questo non è necessariamente un male proprio perché le tradizioni culturali specifiche riescono a venir salvaguardate e rafforzate ugualmente. Ma mentre il fondamento della cultura occidentale è greco-biblico (greco per il pensiero; romano per il diritto; biblico per le radici ebraico-cristiane, senza dimenticare tuttavia la grande esperienza dell’illuminismo europeo), è innegabile che nei paesi di cultura anglosassone, e generalmente nel Nord Europa, prevalga la pronuntiatio restituta, ossia la pronuncia scientifica del latino per come è stata ricostruita, e restituita, dagli studiosi attraverso l’esame dei documenti e delle fonti, giacché non abbiamo testimonianze audiovisive di come parlassero concretamente Cicerone o un cortigiano di Augusto, o un semplice appartenente alla Romana plebs. Fermo restando che, poi, anche i popoli del Nord Europa si intrattengano presumibilmente con una pronuncia del latino più simile alla loro stessa lingua che non a quella dei Romani, riservando la scientificità alla specializzazione universitaria, come del resto avveniva o può ancora avvenire in Italia.
Ci si può avvalere della voce Latino dell’enciclopedia on line Wikipedia per stabilire schematicamente le seguenti differenziazioni:
le lettere 'C' e 'G' hanno sempre suono gutturale (come casa, ghiro), anche davanti ad 'i', 'e', 'l' ed 'n': ad esempio cerno (pron. kerno, osservare), geminus (pron. gheminus, gemello) e via dicendo;
non esistendo il suono v fricativo, il segno grafico 'V' era pronunciato come u o u interconsonantica: ad esempio VVA (uva) era pronunciato uua; idem VINVM (vino), pronunciato uinum e via dicendo.
la 't' seguita da 'i' si pronuncia come tale: ad esempio GRATIA (grazia) si pronuncia gratia
i dittonghi AE e OE si pronunciavano "ai" e "oi"
la lettera H imponeva aspirazione ad inizio parola (forse non al centro) e PH, TH e CH, trascrizioni delle lettere greche φ, θ e χ, si dovevano pronunciare come una P, T o C seguita da aspirazione; successivamente PH si disse come una f
la Y era la trascrizione dell'ononimo segno greco; per tale andava detta come una u francese

II. L’uso tradizionale del latino

Vi è un diffuso utilizzo di termini derivanti dalle lingue latina e greca nelle classificazioni scientifiche. In alcuni convegni internazionali, gli studiosi usano ancora il latino, sebbene ciò accada piuttosto di rado poiché si guarda alla più pratica e immediata preferenza dell’inglese e di interpreti qualificati. Qualche poeta o scrittore si diletta a scrivere in latino, emulando tardivamente il Pascoli. Ma, al di fuori di tali ristretti campi specialistici, è difficile oggi pensare a un’applicazione pratica del latino al di fuori della Chiesa cattolica, che lo usa tuttora specialmente come lingua ufficiale della Città del Vaticano, nonché come lingua liturgica (almeno fino al Concilio Vaticano II, ma attualmente di nuovo dopo il motu proprio Summorum pontificum sulla messa in latino, che si fa risalire al famoso messale di Pio V del 1570).
Ecco un altro esempio di latino reperibile in rete:
POPULORUM PROGRESSIO
LITTERAE ENCYCLICAE*
Ad Episcopos, ad Sacerdotes, ad Religiosos, ad Christifideles totius Catholici Orbis, itemque ad universos bonae voluntatis homines: de populorum progressione promovenda.
PAULUS PP. VI
VENERABILES FRATRES ET DILECTI FILII SALUTEM ET APOSTOLICAM BENEDICTIONEM
1. Populorum Progressio, qui maxime ab iniuria famis, egestatis, morborum domesticorum, ignorationis rerum abesse nituntur; qui largiorem bonorum societatem ab humanitate vitae profectorum expetunt, atque humanas suas proprietates postulant in opere ipso pluris aestimari; qui denique ad maiora incrementa constanter mentes intendunt: horum videlicet popolorum progressio a catholica Ecclesia alacri et erecto animo spectatur. […]
2. […]
3. […] Fame laborantes populi hodie divitiis praepollentes populos miserabili quadam voce compellant. Quapropter Ecclesia, anxiis huiusmodi clamoribus quodammodo cohorrescens, singulos omnes vocat, ut amore impulsi quasi fratribus opem implorantibus tandem suas dedant aures.
Mi vorrei soffermare sugli ultimi due periodi:
I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello.
Si noti come in quest’ultimo punto:
“La chiesa […] chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello” risulti in nel testo orgininale:
“[…] Ecclesia […] singulos omnes vocat, ut amore impulsi quasi fratribus opem implorantibus tandem suas dedant aures.”
Sottolineatura mia. Ho preso questo illustre esempio anche per rilevare come uno degli effetti del latino in rete sia proprio il potenziamento dell’universalità dei testi attraverso la loro accessibilità, secondo un progetto di continuità evidentemente non soltanto linguistica. Così l’indubbia efficacia del dedant aures della frase finale è superiore all’italiano del semplice verbo “rispondere”. Nella sua sinteticità, dare aures esprime l’urgenza dell’appello per il problema della fame nel mondo più drammaticamente, e cioè universalmente, della versione italian
Si noti poi come come il bastone pastorale (lituus) di Augusto in veste di pontifex maximus quale appare nella ricostruzione effettuata del “Colosso” sia stato direttamente tramandato fino a quello dei romani pontefici, secondo un’estensione lineare della durata del potere già individuata da Marguerite Yourcenar che in Memorie di Adriano scriveva ad un certo punto: “Se i barbari s’impadroniranno mai dell’impero del mondo, saranno costretti ad adottare molti dei nostri metodi; e finiranno per rassomigliarci. Cabria si preoccupa di vedere un giorno il pastoforo di Mitra o il vescovo di Cristo prendere dimora a Roma e rimpiazzarvi il Pontefice Massimo. Se per disgrazia questo giorno venisse, il mio successore lungo i crinali vaticani avrà cessato d’essere il capo d’una cerchia d’affiliati o d’una banda di settari per divenire a sua volta una delle espressioni universali dell’autorità. Erediterà i nostri palazzi, i nostri archivi; differirà da noi meno di quel che si potrebbe credere. Accetto con calma le vicissitudini di Roma eterna.”
[3]

III. ALTRI SITI WEB DELLA “LINGUA VIVA"

Di seguito si riportano citazioni dal sito Ephemeris:
a) De Francisci Petrarca vita et scriptis Latinis.
Scripsit Victorius Ciarrocchi.
I. Die 20mo m. Iul a. 1304 in Tusciae urbe Arretio natus est Franciscus Petrarca, cui parentes fuerunt Petrus sive Petraccus, Dantis Alagherii amicus Guelforumque factionis 'Albae' sectator, et Electa Canigiàni. Annum agens octavum una cum patre Avennionem, in Galliae urbem ubi pontifices id temporis commorabantur, Franciscus se contulit ibique prima elementa didicit. Anno 1320 Bononiam petivit ut iuris studia, in quae iubente patre incumbere coeperat, tandem perficeret.

b) The Cambridge Encyclopedia of the World’s Ancient Languages (Encyclopaedia Cantabrigiensis Antiquarum Linguarum Mundi)Domus editoria: Cambridge University PressCantabrigiae Anglorum 2004

In lucem modo prodiit apud Cantabrigienses de totius orbis linguis antiquis liber mirificus, doctus Iuppiter et ponderosus, qui Anglice inscribitur: "The Cambridge Encyclopedia of the World’s Ancient Languages" a variis linguarum hominibus peritissimis conscriptus, a viro docto Roderico [Roger] Woodard curatus (Cambridge University Press, [2004], ISBN 0 521 56256 2).

c) Maria Callas (1923 - 1977)
Scripsit Victorius Ciarrocchi
Viginti sex anni hodie sunt expleti, ex quo Lutetiae Parisiorum mortua est Maria Kalogeropoulos, quae anno 1923 Novi Eboraci nata erat. Eius pater nomen gentilicium in "Callas" mutavit, quo illa femina toti terrarum orbi nota est. Non omnes primo aestimarunt Mariam, quippe qui huius feminae vocem parum canoram iudicarent parumque aptam operibus musicis *melodramaticis*. Attamen die 21 Oct. 1940 felix arrisit Mariae exitus, quae in Atheniensi theatro regio partem Sanctinae (Italice: "Santuzza"), feminae a duobus viris concupitae in fabula musica c. t. "Ferox animi magnitudo" (It.: "Cavalleria rusticana"), mire cecinerat. Altero bello mundano confecto et Greciae condicionibus in peius prolabantibus, anno 1947 Maria in Italiam venit et Veronae cecinit in fabula c. t. "Gioconda".

d) DE IOANNE SPADOLINI (1925-1994).
Scripsit Victorius Ciarrocchi, Italus Pisaurensis
Ioannes Spadolìni, Florentinus, die 4 Aug. 1994 annum undeseptuagesimum agens Romae mortuus est. Qui vir, ingenio peracuto praeditus, iam a puero summam variis in rebus explendis industriam a vitae probitate non disiunctam posuit. Nondum annum undecimum expleverat, cum prima historiae Italicae lineamenta quaedam composuit de viris, qui a Friderico Hohenstaufen Aenobarbato usque ad Benitum Mussolini partes bonas aut malas apud populos Italicos egerint. Anno 1948 in actis diurnis symbolas sive 'articulos' scribere coepit [utrum verbum, quod est 'articulus', rectum an erratum sit ad compositiones in actis diurnis editas significandas, equidem nescio; dicant, quaeso, Latinitatis aureae peritissimi, quibus in antecessum plurimas gratias ago vel si me improbaverint, quia, vestigia Eduardi nostri sequens, tali vocabulo, quod forsitan Cicero isto sensu instructum non intellexisset, uti sum ausus:-)].

Bibliografia e siti consultati

Classici Latini
Detienne, Marcel-Sissa, Giulia, La vita quotidiana degli dei greci, trad. it. di Claudia Gaspari, Roma-Bari, Laterza, 1991.
Ephemeris (un giornale tutto in latino)
Esiodo, Teogonia, trad. it. di Graziano Arrighetti, testo greco a fronte, Milano, BUR, 1984.

Gigante, Marcello, Leopardi e l’antico, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 2002, Società Editrice Il Mulino, MMII (per un contributo alla questione del rapporto tra cultura antica ed età moderna emersa dalla ricerca postuma del grande filologo classico).

Heidegger, Martin, Saggi e discorsi, a c. di Gianni Vattimo, Milano, Mursia, 1976.
Il latino è una lingua viva! (aggiornamenti sull'uso della lingua latina nella vita della Chiesa)
Latino (dall’enciclopedia online Wikipedia a
contenuto libero sostenuta dalla Wikimedia Foundation, organizzazione non-profit)
Nuntii (giornale radio in latino)
Palmer, L. R., La lingua latina, Torino, Einaudi, 1977.
Rito latino (Wikipedia)
Sito ufficile della Santa Città del Vaticano

http://www.scavidipompei.it/

Yourcenar, Marguerite, Memorie di Adriano seguite dai Taccuini di appunti, a c. di Lidia Storoni Mazzolani, Einaudi, 1963, 1981 e 1988.

[1] Marcello Gigante, Leopardi e l’antico, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 2002, Società Editrice Il Mulino, MMII, p. XIII.
[2] Op. cit., Appendice II, p. 150.
[3] Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano seguite dai Taccuini di appunti, a c. di Lidia Storoni Mazzolani, Einaudi, 1963, 1981 e 1988, p. 274.


Sandro De Fazi

martedì 19 gennaio 2010

“La vita di Dimatteo e l’impossibile ricerca del tempo perduto” di p.d. (“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 29.12.09).


Una data, 14 aprile 1985. Una lettera. Inizia così: “…ti scrivo brevemente per chiederti scusa dei miei silenzi…”. È diventato il titolo del libro di Sandro De Fazi, prefazione di Elio Pecora, Edizioni Libreria Croce. Parole indirizzate da Anna Maria Ortese all’amico pittore di Nova Siri Gaetano Dimatteo. Le lettere sono tante, alcune pubblicate, molte altre no. Ma ancora di più sono state le telefonate della scrittrice, torrenziali, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Con un rischio sempre in agguato, perdere il filo del discorso e trasformare il telefono nel filo della pigrizia e della maldicenza. È uno dei momenti descrittivi più intensi del libro di De Fazi dedicato alla vita di Gaetano Dimatteo. Impresa ardua. Del resto, così onestamente scrive: “Sono ben consapevole, però, del sicuro dato di fatto – verso cui io oppongo resistenza – che la stesura della presente opera biografica coincida profondamente e mio malgrado con una certa quale impossibilità di scriverla…”.
Impossibile dice De Fazi. Intanto, racconta, di un mondo, quello dei “magnifici sei”, Alberto Moravia, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Dacia Maraini, Enzo Siciliano e Dario Bellezza, della Scuola romana di poesia, rievocata anche in un recente volume di Renzo Paris, intitolato La vita personale, edizioni Hacca. Dimatteo è stato parte di quel mondo, soprattutto tramite Bellezza che nel 1979, così definì la sua opera: “…concepisce la pittura come una attività solarmente tragica, con questa pittura vuole testimoniare del sud di cui è figlio una condizione sospesa fra passato e futuro, fra istinto di vita e istanza di morte…”. Fasti miseri e miserie fastose di quel tempo si succedono nel libro di De Fazi, ripercorrono una storia di deragliamenti che diventano quotidianità, spesso dolorosa e comunque regola per chi non vuole darsi alcuna regola, perché, scrive, inoltre “gli artisti sono notoriamente dei mostri solitari e non amano che se stessi”.
Molte sono le pagine dedicate a Bellezza che, nella sua vita ha avuto solamente due veri amici, uno dei due è Dimatteo. Il “poeta maledetto”, volle ribattezzare il pittore di Nova Siri, lo chiamò Depisis e lo “retrocesse” al rango d’autista. E in quella teatralità che si confonde con la vita e che ha accomunato i due, l’artista lucano divenne personaggio chiave, grimaldello nell’isolamento cercato da Bellezza al castello di Bollita, l’antico toponimo di Nova Siri. Dimatteo fu il liberatore di una Isabella Morra altra che si irrorava nel maniero sbagliato, non quello della vicina Valsinni, dove viveva reclusa la poetessa, ma nel dominio del suo presunto amante Diego Sandoval De Castro. Era una liberazione che avveniva anche attraverso la gola, solleticata dalle abili mani della madre del Depisis lucano, Giuseppina Santarcangelo, ovvero dai suoi piatti mediterranei, semplici e prelibati. Ma, come aggiunge De Fazi, “questo non è un libro di memorie, la ricerca del tempo perduto è impossibile”. Insomma, si va per schegge, segmenti, giudizi folgoranti come quello espresso da Moravia, nel 1989, alla Fiera internazionale di arte contemporanea a Bari: “La pittura di Dimatteo è raffinatissima.” De Fazi, avverte più avanti che, comunque, “è tipico della classe media ‘mentire’ borghesemente e per esclusive ragioni di convenienza sociale”, non per ragioni etiche. Ma esiste ancora una classe media? Oppure è ormai un’assenza capace di sottrarre linfa vitale allo scandalo che provocano – ora non più – le opere e la vita stessa di Dimatteo? L’artista di Nova Siri, che non scoppia di salute, è più solo e questo libro non può che rinfrancarlo, perché oggi non ha neppure più il privilegio di autentici “nemici”. Può temere solamente i processi biologici alleati al tempo che passa, avversari spietati del sogno di gloria terreno che tutto decompongono. Poi, rimangono solo infiniti silenzi. Con tutto il rumore di fondo che c’è difficile mettersi in ascolto. Non è per caso se il volume è dedicato alla diva del cinema muto Louise Brooks.


(p.d.)

domenica 17 gennaio 2010

ELIO PECORA: prefazione a Sandro De Fazi, "Ti scrivo brevemente per chiederti scusa dei miei silenzi. Vita di Gaetano Dimatteo."



E’ fuori dubbio la singolarità di questo libro, che non appartiene al genere del romanzo e nemmeno a quello della biografia. Ma siamo in tanti a sapere che la vivezza e la vitalità di un libro solo di rado dipendono dal fatto di ascriverlo a un genere, di imprigionarlo in una categoria.
Si tratta invece di un libro che dai generi prescinde in quanto mescola alla narrazione il pensiero vagante, l’annotazione, il rispecchiamento, la varietà e la velocità dell’appunto, il protrarsi di una citazione, il frammentarsi di un ricordo. E che del romanzo rifiuta la struttura vigilata, l’andamento concluso. Ne viene una scrittura che procede in un suo flusso inarrestabile e pure trattiene il lettore e lo conduce verso inaspettate rese, nemmeno più tali se sconfinano in nuove interrogazioni, verso inquietanti anamorfosi.
De Fazi si propone di raccontarci la vita di Gaetano Dimatteo, pittore e scenografo lucano, uomo di notevoli qualità , di affetti profondi e provati, di impegni costanti. E molte di queste pagine raccontano e rivelano l’artista e la complessità e la_ vastità del suo operare, ma prima ancora la sua tenerezza di figlio, di creatura sofferente, di amico attento e fedele, di persona che vive con passione e con partecipazione il suo tempo.
Ma una singola esistenza porta in sé e con sé tante altre esistenze, di certo quelle che l’hanno toccata così da vicino da nutrirla, motivarla, decuplicarne le forze e i doni. Allora la biografia diventa la storia di molti, l’annodarsi e lo snodarsi di vicende prossime e diverse. Il tempo si dilata, i luoghi si moltiplicano, le voci s’alleano in un coro.
Così, la vita di Dimatteo, s’intreccia e si confonde con quella di Dario Bellezza e di Anna Maria Ortese, qui presenti e pressanti. Leggiamo le loro lettere, ascoltiamo le loro telefonate, ne percepiamo le pene, ne cogliamo le incertezze, ne rileggiamo le prose e i versi, ne apprendiamo le delusioni, le rare contentezze. E l’amicizia si tinge di amore, la comprensione diviene vicinanza, condivisione di un cammino. E pittura e poesia, discorso aperto e chiusa confidenza arrivano ad essere espressione cercata e raggiunta rappresentazione.
Gli anni attraversati vanno dal Settanta all’oggi. Passano e si fermano Moravia, Elsa Morante, Penna, Amelia Rosselli, Pier Paolo Pasolini, Luchino Visconti. Parlano e si svelano, in un intreccio di umori, di verità tenere e aspre. Amici di Dimatteo, che ha dedicato mostre a Moravia e a Visconti, e che per decenni ha avuto l’affetto della Ortese, ha condiviso i lunghi soggiorni a Nova Siri di Bellezza, sono colti da De Fazi - che di alcuni di quei “protagonisti” è stato amico in un’età di cui ha forte nostalgia - con vigore e con grazia, con l’attenzione del poeta e del critico, ma soprattutto dell’uomo che pone gli affetti al di sopra di ogni altro sentire.
Per ciò, in questo libro, l’estetica ha la meglio. Innalzando un altare di parole all’artista e all’uomo, e con lui e per lui a quel gruppo di autori al quale Dimatteo è stato fortemente legato, Sandro De Fazi prova quanto possa prevalere su ogni visione e ragione il sentimento, o quel che ancora Proust chiamava “l’intelligenza del cuore”: che è misura del mondo, sua inderogabile norma, sua vera interiore salute.

Elio Pecora

novembre 2009

sabato 16 gennaio 2010

Recensione a "I miei premi" di Thomas Bernhard. di Sandro De Fazi

Non siamo intrattenuti che dai suoi acquisti d’abiti prima che lui si rechi a ritirare il cosiddetto Premio Grillparzer, o dalle complicità sentimentali con l’amatissima “zia” per la Borsa del Settore Cultura dell’Associazione Federale dell’Industria Tedesca, e lui non si preoccupa del denaro, per acquistare una casa solamente dopo aver ritirato il gettone del Premio Letterario della Libera Città Anseatica di Brema, previ accordi con un ingenuo mediatore, e i soldi non basteranno magari alla bisogna. Era Bernhard una brava persona? La vita appartiene all’opera o è vero il contrario?
Fin dall’età ellenistica la convenzione vuole dissociare l’autore sdoganato nella sua quotidianità esistenziale da quanto è da lui stesso attribuibile all’intenzionalità letteraria, ma nella nostra epoca preoccupante l’utilizzo delle modalità informatiche complica inevitabilmente il discorso alle Marie Corti future o agli improbabili biografi in presa diretta o per interposta persona se non addirittura postumi anche se editi in vita, e i quesiti diventano interminabili. Nelle trecento pagine di Vita di Moravia (1990) di Alberto Moravia e Alain Elkann non si trova il minimo cenno a Thomas Bernhard, a meno che il suo nome non sia assunto dietro inquietanti anamorfosi, nello svolgimento della parola scritta che tutto inghiotte a quattro palmenti. Bernhard è un parente scomodo, e chissà che Dario Bellezza, romanziere come ci teneva a definirsi oltreché grande poeta non abbia pensato a Perturbamento (1967) dello scrittore austriaco nello scrivere Turbamento (1984), romanzo ormai introvabile nelle librerie… La pagina di un autore presente su un network sociale, del resto, diremmo oggi, appartiene alla sua vita oppure all’opera? E chi si nasconde dietro il suo account, ovvero da chi è esso realmente gestito?
Non possiamo rispondere a queste domande basandoci su I miei premi, lo smilzo volumetto edito in Italia da Adelphi nel 2009, dove la prosa di Bernhard risulta magistralmente irritante. Eppure di lui si è occupato Pietro Citati, secondo il quale «Thomas Bernhard immagina che siamo prossimi alla fine del mondo, e tutti i suoi libri ci ricordano ogni istante – con l’abbaiare dei cani, gli urli dei vitelli uccisi, i gesti disumani dei suicidi – l’imminenza di questa fine, come Giovanni ricordava ai suoi contemporanei l’imminenza della catastrofe». Ed è stato distinto dalla più infuriata critica insieme a Flaubert, dai vari Tamaro (che secondo l’indimenticabile Anna Maria Ortese era e presumibilmente è ancora una brava persona) e Baricco dei nostri giorni.
La verità è che siamo sorpresi, in finale, dal Discorso in occasione della consegna del Premio Georg Büchner sul silenzio e sulle parole: «le parole che nello sconforto maneggiamo dentro il cervello, migliaia e centinaia di migliaia di parole logorate, per noi riconoscibili, attraverso infami verità, come infami menzogne e viceversa, attraverso infami menzogne, riconoscibili come infami verità in ogni lingua, in ogni relazione, le parole che ci azzardiamo a pronunciare e a scrivere, e a tacere a noi stessi sotto forma di discorso».
I miei premi di Thomas Bernhard sembrano le confessioni di un filibustiere ma noi non possiamo far coincidere necessariamente gli stati d’animo che Bernhard ci descrive attribuendoli a sé con gli stati d’animo di Bernhard in persona.


Sandro De Fazi

Pubblicato in "POESIA ITALIANA" 2/1/10
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