sabato 23 luglio 2011

La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz. Una recensione


La ormai classica novità di La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz (BUR 2009²), pubblicato la prima volta nel 1930, consiste innanzi tutto nel fatto che il libro ripercorre tre letterature, inglese francese e italiana, isolando la sensibilità erotica degli autori romantici, in aperta sfida alla critica idealistica del tempo, e provocando la moralistica stroncatura di Benedetto Croce, che pretendeva una maggiore complessità per il romanticismo e per la vita stessa in cui non doveva prevalere «la patologia sessuale» e che «vuole la distinzione e con ciò l’armonia di tutte le sue parti». Tant’è vero che viene a un certo punto fatto di domandarsi, rileggendo Praz (e questa non è che una delle tante fascinazioni di questo testo, di segno spesso esoterico), quando, e addirittura se, sia davvero finito il Novecento (romantico), dal momento che, in secondo luogo, la più grande e seducente intuizione critica di Praz è stata quella di rimettere radicalmente in discussione le formule storiografiche ricorrenti, dandoci come un unicum indivisibile sia il romanticismo (e non solo le sue propagginazioni più abitualmente riconosciute come tali) sia la scapigliatura sia il verismo sia lo stesso decadentismo, prolungando il periodo romantico come un tutt’uno fino a gran parte della letteratura dello stesso Novecento, o almeno di quello a lui contemporaneo (Praz è morto nel 1982). Secondo Croce, era illegittimo da parte di Praz segnare in modo tanto debole la differenza tra romanticismo e decadentismo, e spingersi a «far consistere il cosiddetto romanticismo nella formazione di una sensibilità nuova, quella appunto che si manifesta nelle tendenze e figurazioni che egli così largamente espone». Nell’Avvertenza alla seconda edizione del 1942 Praz gli risponderà in modo articolato, peraltro basandosi proprio sulla crociana Storia d’Europa nel secolo decimonono, che la sua non è una sintesi del romanticismo tout court bensì una monografia su particolarità tematiche della sensibilità romantica.
«L’epiteto romantico e l’antitesi classico-romantico sono approssimazioni da lungo tempo entrate nell’uso. Il filosofo le mette solennemente alla porta esorcizzandole con logica che non erra, ed esse rientrano chete chete per la finestra, e son sempre lì tra i piedi, elusive, assillanti, indispensabili.» Comincia così la monografia comparatistica di Praz, e subito segue l’osservazione che critica letteraria presuppone storia della cultura: «storia della cultura d’un ambiente e storia della cultura d’un individuo». Si continua per più di quattrocento pagine fittissime, infarcite di autori, personaggi, citazioni in francese, generi letterari, epoche, ambienti, miti, passioni, ripercorrendo le costanti tematiche della bellezza medusea cantata da Shelley, della metamorfosi diabolica in Byron, di Sade antecedente diretto dei romanzi di Flaubert, della bellezza diabolica celebrata da Keats, della Salomè di Wilde, dell’algolagnia sadomasochistica di Swinburne, dei plagi di D’Annunzio, messe in relazione con le innumerevoli varianti offerte dal contesto di volta in volta analizzato. Un gioco a incastri, aperture, intagli, passaggi sotterranei di cui è impossibile dare un resoconto esaustivo.
Di epicurei dall’immaginazione cattolica risulta piena la grande letteratura decadente a partire da Chateaubriand. Huysmans va d’accordo col marchese de Sade cogliendo una verità da trasgredire proprio in quanto creduta (diversamente non ci sarebbe nulla da violare). C’è il sospetto che Praz tratti la nevrosi di questi autori come un appianamento (o un sollievo) nella delectatio morosa, con un inevitabile residuo di irrisolto nella vita. A questo irrisolto lui sembra aderire perfettamente, perché è anche il suo, e resta il suo quando lo contesta o contestualizza in un’infinità di rimandi, giustamente proiettivi o esclusivi, coinvolgendo i generi minori e le arti figurative, soprattutto la pittura preraffaellita. In altri termini un cristianesimo torbido era già presente in Dostoevskij, investendo l’irrealtà quale giustificazione e soddisfacimento della pulsione: il peccato in convento o rivolgersi alla messa dopo la compulsione sessuale equivale sul piano filosofico ad assumere il sacro come profondità del profano e non come sua necessaria contraddizione. Huysmans predilige il latino post-classico perché si ritrova nella mancanza di equilibrio senecana e nel compiacimento di Petronio, molto più che nel tentativo del periodo cristiano di costringere a una mediazione il paganesimo e la nuova religione. Gide riceve una sostanziale stroncatura, eternamente oscillante tra la paura di compromettersi – a differenza di Wilde, che sfidò quella paura ribaltandola nella provocazione, fino a uno stupido errore di calcolo masochista (l’algolagnia) – e il desiderio di compromettersi. Gide è visto da Praz come un «ermafrodito morale, sospeso tra diverse possibilità e, in conclusione, negativo, sterile.» Ciò che dispiace di questo libro è semmai la considerazione in cui l’autore mostra di tenere Sainte-Beuve (già nell’Avvertenza del ’42, o per i rapporti tra Byron e Chateaubriand, per es., e comunque non sempre portato a modello).
Quando si parla di Praz non si può non pensare alla sua casa. L’abitazione privata di Praz, oggi museo, era l’oggettivazione dell’io di Mario Praz, come se fosse una casa della morte. Non l’io sperimentale, anagrafico o pratico, bensì un io profondo, che stava al di qua degli oggetti – la sua collezione di arti minori – e al di là anche del suo caro e semplice io. Quella mancanza di vita, in un rispecchiamento dell’io sublime che si riconosceva negli oggetti raccolti nella casa-museo di Praz, era una contemplazione della morte sottoforma di vita, restituita dalle conversation pieces. Era inconfondibile il sentimento di claustrofobia che doveva venirgli dalle arti minori, dove si rispecchiava e ritrovava quel suo io: «Con i colori più caldi, con l’amorosa sensualità melodica che Tasso e Rubens avevano nutrito nella sua penna, – ha scritto Pietro Citati – provava a immaginare quella vita pura e senza oggetti che forse avrebbe potuto conoscere. Gli sembrava di aver fallito in tutto, riempiendo la casa di cose morte, uccidendo attimi incorporei di tempo possedendo un’esistenza che non gli apparteneva.» Tutto doveva restare immune dalla contaminazione del mondo, a prezzo dell’isolamento, perché tutto fosse perfetto e intangibile nella contemplazione della bellezza.
Ma la vita ha una forza incontrollabile e presenta svolte immoralistiche, completamente imprevedibili. Vicino a Mario Praz, esattamente al piano superiore della casa di via Zanardelli, dopo la lavorazione di Gruppo di famiglia in un interno (1974) di Visconti, per caso andò ad abitare Mario Schifano, che aveva dichiarato di voler abbandonare la pittura e dedicarsi al cinema, da lui giudicata arte viva. Detestava lo psicologismo di Bacon, non gli interessava Morandi, non lo riguardava Pollock, apprezzava Raushemberg come uomo e non come pittore. Amava de Chirico, Boccioni, Balla, Picabia, Picasso, Jasper Johns, Jim Dine. Come artista si dava alle più sperimentali incursioni maledettistiche fin nel mondo delle droghe pesanti e Praz era vistosamente imbarazzato di averlo come vicino. Schifano faceva un gran chiasso, era scomposto assordante ambiguo senza ritegno, inquinava il silenzio della sua solitudine, lo disturbava. Il professore era infastidito, aveva perso la pace, senza neppure ritrovare la vitalità smarrita nella perfetta collezione delle sue conversation pieces. Questa singolare situazione circolò nel mondo artistico-letterario romano dei primi anni Settanta, colpì Luchino Visconti, già malato, dopo la trilogia tedesca, per la portata profetica che il suo film veniva ad assumere in questa determinata circostanza. A Praz come alter-ego del regista e alle sue miniature, alla sua casa-museo, alla sua rinuncia al mondo esterno, alla defunzionalizzazione del suo sapere (e, d’altro canto, a Mario Schifano trasfigurato a posteriori nella volgare e attraente famiglia di inquilini, emblema dell’invivibilità del presente, che vengono a invadergli l’abitazione), si era infatti ispirato Enrico Medioli per il personaggio del professore. Visconti ne fece un Kammerspiel, un film-requiem tutto girato in interni, come a teatro, citando la Recherche, dove si parla di un inquilino immaginario al piano di sopra che si aggira, inquietante, misterioso, come una metafora della morte.
Sandro De Fazi

sabato 9 luglio 2011

Gli ultimi giorni di Giulio Cesare di Luca Canali. Una recensione


Giulio Cesare soffriva di vertigini, oltreché, come è noto, di epilessia, oggi parleremmo di attacchi di panico che gli davano frequentemente l’impressione di vacillare, come se fosse atterrito dall’altezza cui era arrivato non soltanto come dittatore ma soprattutto come uomo in lotta con la mancanza di equilibrio per la sovrabbondanza di vitalità interiore non a caso riversatasi nello stile dei suoi scritti, tra i più affascinanti dell’età della letteratura latina che porta il suo nome. Questo tratto umano è la spia del destino eccezionale raccontato nel diario che Luca Canali fa scrivere a Cesare stesso nell’ultimo mese di vita a partire dal 6 febbraio nel romanzo intitolato Gli ultimi giorni di Giulio Cesare (Newton Compton), soffermandosi con rigore scientifico e allo stesso tempo con tensione narrativa fino all’epilogo sanguinoso delle Idi di marzo del 44 a. C. (anno 710 ab Urbe condita). Emerge da questo gioiello dell’insigne latinista il carattere letterario, teatrale, di quella tragedia sia personale sia politica: «Non credo nel destino, e tantomeno nel cosiddetto Fato. E disprezzo i filosofi – eccettuato l’atomista e razionalista Epicuro – i quali, di fronte ai misteri ultimi dell’esistenza, dello spazio infinito e del tempo eterno, al pari dei comuni mortali di animo semplice placano la loro inquietudine e rendono più risibile la loro impotenza affidandone la soluzione, o comunque la decifrazione, ai più disparati demiurghi divini comunque denominati.»
Sono qui ripercorse le amicizie coi poeti frequentati e le sue tre mogli, Cornelia, Pompea e l’attuale Calpurnia, insieme ai fatti salienti della tarda repubblica. Cesare di fatto era diventato un re ellenistico senza diadema, pater patriae ma sempre con la corona d’alloro mentre il conio portava la sua immagine incoronata d’oro. Aveva trionfato in Gallia, in Egitto, nel Ponto, in Africa. Nel 46 un senato apparentemente docile, in realtà già ostile, gli ha conferito la dittatura per dieci anni, e solo un mese prima della morte lui rifiuta la corona regale mentre un senatoconsulto lo proclama dittatore a vita. «Sono sulla vetta del potere. Ora comincerà la discesa, che qualcuno cercherà di rendere più veloce. Non è ossessione pessimistica: ricevo continuamente informazioni sul moltiplicarsi di conciliaboli di persone sospette.»
È insomma al vertice della gloria, è ricoperto di onori e padrone del mondo e si sta preparando per una campagna militare contro i Parti. E tuttavia, ed ecco il tranello della storia, almeno da un anno, i segnali dell’ostilità che va crescendo intorno a lui si fanno sempre più inequivocabili e pressanti: «l’infittirsi di questi assalti anonimi comincia a impensierirmi, considerando che la loro frequenza e diffusione territoriale possono avere effetti negativi sull’opinione pubblica finora a me favorevole. È quindi necessario che metta sull’avviso i servizi di vigilanza, capeggiati da Volusio». Ma, pur cogliendo le avvisaglie del pericolo, o per la stanchezza di affrontare le insidie dei nemici o perché comprende a poco a poco di non poterli più sostenere o per semplice disgusto della vita e del potere o per avventato esibizionismo e capriccio, sta di fatto che Cesare, con l’incalzare degli avvenimenti, non si cura più di difendersi e anzi, come per una sfida suprema e ostentando onnipotenza monarchica, congeda la guardia del corpo.
Secondo l’ipotesi riferita da Svetonio, che giustamente lo considera il vero fondatore del principato augusteo e il primo effettivo imperatore romano anche se non lo era nominalmente, – e il suo successore farà di tutto per dare l’impressione di “non” governare che una repubblica apparente piuttosto che un impero che ricopriva gran parte della terra allora conosciuta, – un mese prima dell’attentato del quale non può non essere a conoscenza, Cesare licenzia la guardia del corpo spagnola (etiam custiodias Hispaniorum se removisse) che abitualmente lo proteggeva con tanto di spade sfoderate (cum gladiis adinspectantium). Non si dimentichi che era un letterato atticista, un purista della lingua latina (lo sappiamo anche autore di un piccolo poema, l’Ibris e di una tragedia, l’Oedipus, che non ci sono pervenuti), e non per caso Canali immagina che da ultimo si affidi alla scrittura di questo giornale privato. La sua mente era capace di organizzazione strategico-militare e di ideazione fantasiosa: la fantasia poetica atta a dettare i commentari, l’una e l’altra dimensione riunite come in un doppio cervello, disponendo della geniale facoltà di far sussistere in un’unica personalità entrambi gli estremi opposti della situazione. Del resto è lo stesso Svetonio ad aggiungere letteratura alla storia, insinuando un importante indizio per la risoluzione del mistero che diventa l’atteggiamento del condottiero quando volle abbracciare la morte o, meglio, non si curò di evitarla: Cesare era malato (quoque valetudine minus prospera uteretur) e sapeva di dover morire presto, quindi tanto valeva accettare, con disprezzo per la vita, che la sorte decretata ormai seguisse il suo corso.
Qualunque sia il caso, non si lasciò sfuggire l’occasione per accelerare la fine e andarle stoicamente incontro. Una fine immediata e senza dolore (repentinum inopinatumque) era quella che preferiva, come aveva dichiarato cenando da Marco Lepido – l’8 marzo, secondo il diario di Canali, il giorno prima delle Idi, e cioè il 14, secondo Svetonio – agli amici che di nuovo lo stavano avvisando, con circospezione, della minaccia incombente. Probabile che fosse isolato al punto che non si sentisse più in grado di gestire politicamente la situazione. Per quanto si vogliano sottolineare i limiti del biografismo svetoniano che è di tipo peripatetico-alessandrino e mai opera storiografica in senso stretto, è dal riferimento del minuto dettaglio quotidiano che la testimonianza di Svetonio, priva di qualsiasi coinvolgimento personale e morale, diventa valida per la ricostruzione delle singole individualità tratteggiate in se stesse, avulse dalla vita dell’impero.
Il cesaricidio non risolveva affatto lo squilibrio causato dall’accentramento di un potere immenso nelle mani di uno solo, la guerra civile che ne deriva durerà ben tredici anni. La crisi della repubblica era ormai irreversibile. Ottaviano avrebbe trionfato facendo in modo che tutta la letteratura d’opposizione anticesariana non ci fosse tramandata.
Sandro De Fazi
pubblicato in http://www.filosofiprecari.it