venerdì 30 settembre 2011

La condizione servile a Roma

L’humanitas caratterizzava il legame tipicamente romano tra servus, o mancipium, e dominus. Non sono rari i casi tramandati di fedeltà fino alla morte non solo del primo verso il secondo ma anche viceversa, fino all’identificazione totale del corpus dell’uno nel corpus dell’altro.
Esisteva tra i due un rapporto privilegiato, avulso da qualsiasi altra modalità consueta nella pratica delle relazioni sociali o nei legami affettivi più intimi. Questa situazione anomala contraddice il luogo comune che attribuisce allo schiavo romano, spesso liberto, condizioni di lavoro e di esistenza durissime se non addirittura disumane. In età giulio-claudia le favole di Fedro, prive dell’energia sufficiente per assurgere all’alta letteratura, risentono del deterioramento della condizione servile successiva ad Augusto. Non risulta nemmeno, iscrivendosi in un mos abbastanza consolidato, così umanitariamente innovativo il famoso passo di Seneca, peraltro nobile per l’energia con cui il filosofo denuncia l’arroganza usata da parte di alcuni, dove si legge: «”Servi sunt”. Immo homines. “Servi sunt”. Immo contubernales. “Servi sunt”. Immo humiles amici» (Epistulae ad Lucilium, 47). Seneca scriveva in un periodo storico nel quale si era andata progressivamente restaurando un’abitudine oppressiva nei confronti dei servi, umiliante in sé, ma che si configurava all’interno di una zona franca: il rendiconto immediato alla comunità dei domini, anche se il diritto contemplava la compravendita e la possibilità stessa della tortura.
Esisteva tra i due un vero e proprio vincolo affettivo. In quanto ultimo rifugio potenziale (e nonostante che la legge non lo considerasse soggetto giuridico ma lo trattasse come oggetto di scambio, non diversamente da altri beni materiali), il servus fin dall’inizio si collocava in una dimensione relazionale fondamentale ed esclusiva e, perciò, in un certo senso superiore a tutte le restanti forme di rapporto anche per quanto riguardava gli altri uomini liberi. Ed è vero che ogni servus era un potenziale liberto, e avrebbe potuto rendersi cittadino libero. Il dominus alimentava la speranza del riscatto futuro; che il servus a sua volta poi fosse fedele è dimostrato dal fatto che in una casa patrizia vivevano anche decine di schiavi, ognuno preposto a determinati compiti tra i più delicati dal momento che, se non fosse stato degno, o degna, nel caso della serva, di fiducia avrebbe potuto, ad es., avvelenare i cibi o tagliare la gola al dominus paradossalmente sottomesso per farsi radere. Non c’era nessuna circostanza della vita che fosse in grado di ridurre il cittadino libero a non poter contare nemmeno sul proprio schiavo.

mercoledì 28 settembre 2011

Celan e Heidegger



«È forse questo il luogo adatto per segnalare – scrive Jean Bollack in La Grecia di nessuno (Sellerio 2007, pp. 289-290) - che, secondo la testimonianza di suo figlio, Heidegger non sapeva che Celan era ebreo. La notizia è poco credibile, ma dopo tutto possibile, e fornisce dunque una testimonianza dell’insensibilità, del non-riconoscimento e del rifiuto di identità».
Dalla scuola della durezza un’idea di riconciliazione è completamente avulsa, nel senso che non è necessario innalzare, come invece vorrebbe Baumann, il fallimento dell’offesa ricevuta a un grado di necessità irrimediabile. Ma saper camminare sopra il pericolo, anzi cercarlo per poi resistere, è proprio il rimedio che Celan avrebbe appreso da Heidegger (anche se Celan non aveva probabilmente la forza di sopportare il pensiero di Heidegger), almeno stando a Otto Pöggler (ma non è meno vero per Lacoue-Labarthe). Cito: Wo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch: potrebbe essere di Hölderlin quanto di Ernst Jünger, a questo punto. 
Sdf

Libertà e uguaglianza




Il contrasto tra Rousseau e Nietzsche può essere bene illustrato dal diverso atteggiamento che l’uno e l’altro assumono rispetto alla naturalità e artificialità dell’eguaglianza e della diseguaglianza. Nel Discorso sull’origine della diseguaglianza, Rousseau parte dalla considerazione che gli uomini sono nati uguali, ma la società civile, vale a dire la società che si sovrappone lentamente allo stato di natura attraverso lo sviluppo delle arti, li abbia resi diseguali. Nietzsche, al contrario, parte dal presupposto che gli uomini siano per natura diseguali (ed è un bene che lo siano perché, fra l’altro, una società fondata sulla schiavitù come quella greca era, proprio in ragione dell’esistenza degli schiavi, una società evoluta) e soltanto la società, con la sua morale del gregge, con la sua religione della compassione e della rassegnazione, li ha resi eguali. Quella stessa corruzione che, per Rousseau, ha generato la diseguaglianza, ha generato, per Nietzsche, l’eguaglianza.
[…]

domenica 25 settembre 2011

Senario giambico

Camillo Miola, L'oracolo
(1880)
Fabularum Phaedri – Liber Primus –
Lupus et agnus

Ad rivum eundem lupus et agnus venerant,
siti compulsi. Superior stabat lupus,
longeque inferior agnus. Tunc fauce improba
latro incitatus iurgii causam intulit:
"Cur -  inquit - turbulentam fecisti mihi
aquam bibenti?" Laniger contra timens :
"Qui possum - quaeso - facere quod quereris, lupe?
A te decurrit ad meos haustus liquor."
Repulsus ille veritatis viribus:
"Ante hos sex menses male - ait  - dixisti mihi".
Respondit agnus: "Equidem natus non eram!"
"Pater, hercle, tuus - ille inquit  - male dixit mihi!"
Atque ita correptum lacerat iniusta nece.
Haec propter illos scripta est homines fabula
qui fictis causis innocentes opprimunt.

venerdì 23 settembre 2011

Un'offerta d'amicizia a Nietzsche


"Le lettere di Nietzsche dall'ottobre 1888 al gennaio 1889 sono una lettura dolorosa, estraniante in confronto al tono personale e vivace dei mesi e degli anni precedenti. Al graduale venir meno delle occasioni di sviluppo, l'intera personalità risponde con furore. Tra brani pubblicati e brani scartati, Ecce Homo è una testimonianza della lotta contro l'inasprirsi degli interessi. Nietzsche capiva ancora la differenza tra la realtà e la dimensione retorica dell'arte, e il tentativo di potenziare l'espressione artistica appare  evidente  dall'eliminazione di alcuni brani. Non era vero, però, che fosse libero da fanatismi, odio, disprezzo, arroganza e che non soffrisse mai del proprio isolamento. La mente che aveva creato Ecce Homo rinnegava freneticamente qualsiasi lotta, ma la disinibizione provocata dalla sifilide le impediva di contenersi." (Lesley Chamberlain, Nietzsche in Turin. The end of the future, trad. it. Nietzsche. Gli ultimi anni di un filosofo, Editori Riuniti 1999, p. 203)
- Nietzsche è uno dei miei amori letterari: dico letterari in senso lato. Lui del resto fu uno dei più grandi scrittori in lingua tedesca. Imprescindibile. Lo frequento spesso. Questo libro della Chamberlain è uno dei più belli che io abbia letto su Nietzsche. Ripercorre in particolare gli ultimi tempi torinesi, seguendolo quasi ora per ora, giorno per giorno con un'offerta di amicizia a lui, che l'autrice e il lettore gli propongono. Lo dice nelle prime pagine la Chamberlain, cercando di sdrammatizzare le difficili condizioni di vita del filosofo in quel terminale periodo vissuto a Torino:
"Dobbiamo comunque considerarlo come uno scrittore e occuparci per il momento delle sue opere, per non rischiare di cominciare e finire questo volume all'insegna di un coinvolgimento eccessivo nei confronti della sofferenza umana di Nietzsche. Se si sottolinea l'aspetto tragico della sua situazione, l'offerta di amicizia che intende fare questo libro a distanza di un secolo sarà purgata della sua intensità e il gesto privato di energia." (p. 45)

sabato 17 settembre 2011

La congettura diagnostica


Non abbiamo un solo testo autografo di autore greco o latino: gli errori con ogni verosimiglianza erano presenti fin dall’antichità. Ma un’interpolazione intenzionale può benissimo essere una falsificazione vera e propria. Escludendo l’errore materiale nella fonte, bisogna partire ragionevolmente dal presupposto che non è possibile risolvere tutte le problematiche del testo nella sua forma tràdita ma neppure si deve ricorrere precipitosamente all’obelo (†) qualora ci si imbatta in difficoltà a prima vista anche notevoli. Sarebbe ugualmente sbagliato

mercoledì 14 settembre 2011

Dividuum e individuum









Il grande sofferente è un maestro dell’estremo, chi è stato capace di rinnegare i suoi più alti ideali per amore dell’arte. Quando l’amore è sconfitto dalla verità, l’unico modo per ucciderlo definitivamente è rendere passionale la verità, erotizzarla, darle i connotati che prima erano stati di quello. È la criticanietzscheana alla metafisica dell’arte di Wagner. 

domenica 11 settembre 2011

Bibliografia consigliata su Paolo VI



Cazzugo, Aldo, Paolo VI. Invito alla lettura, San Paolo 1999

Cremona, Carlo, Paolo VI, Rusconi 1994

Guitton, Jean, Dialoghi con Paolo VI, trad. it. di Maria Luisa Mazzini, Mondadori 1967

venerdì 9 settembre 2011

L’inettitudine di alcuni piccoli/e v.i.p.



A parte eccezioni rarissime, certi vippetti di Facebook non hanno alcuna capacità di dialogo. Chiusi in un’autocelebrazione asfissiante, incapaci di discernere post da post, dimenticano che il virtuale rientra nella creatività, di cui qui danno prove turpi. E me ne faccio meraviglia perché in taluni casi ne conoscevo il lavoro, prima che mi cadessero le braccia a vederne l’account nel social network! Ovviamente giudichiamo l’opera non la vita, non la persona anche se soggettivamente ho comunque il diritto di tenermi lontano da simili risultati. Purtroppo per loro, il virtuale sta a metà strada tra l’una e l’altra e, ribadisco, sono turpi nella forma e nel merito. A pensarci bene, ciò che hanno fatto costoro, prima, non mi aveva mai entusiasmato. Scemo è chi li segue, baccalà almeno quanto loro… Ciascuna persona è importante.

mercoledì 7 settembre 2011

Colette



La lista dei libri non scritti è come un insight formidabile o come quelle verità viste in sogno e lette in Colette o in Borges con la luna nuova. Ti folgorano per la loro evidenza e il senso di soddisfazione che immediatamente te ne derivano nel trovare la soluzione a un problema del quale non avevi forse sufficiente consapevolezza, laddove tutto sarebbe stato così semplice. Alla luce del giorno svaniscono, però, insieme alla casa dove l’amore si era finalmente degnato di farci entrare. Fled is that music. Non sai più se sei stato proprio tu a vivere quel momento nella realtà o in un libro o te lo sei inventato, se affabulava Gabrielle Colette raccontando di quel suo amico bibliotecario che prendeva il tè a casa sua o riferiva la verità o la menzogna dell’altro. Lui aggiornava costantemente un elenco di titoli che gli autori avrebbero voluto o dovuto scrivere e non lo fecero. Lei pure guardava la luna nuova da un'altra porta, allora vai inutilmente alla ricerca nella tua biblioteca privata o su google di quel passo contenente un luogo della mente e del corpo tanto prezioso: davvero Leopardi non scrisse il romanzo Eugenio, Manzoni non mise insieme una raccolta di versi erotici per non dimostrare fino in fondo che anche l’illuminismo di Giulia Beccaria era un’emanazione provvidenziale dei Vangeli apocrifi, che John Keats non compose in Italia un autodafé in prosa contro la letteratura che non avrebbe dato immortalità al suo corpo valetudinario. La voluttà del corpo amato invece a concedere una cospicua baldanza nel ricordo diventa il surreale diurno, il reale notturno moltiplica la praticabilità, tutto sommato ordinaria, di quell’esperienza goduta. Le opere sono tutte nella mente degli autori al punto di poter prevedere gli sviluppi successivi di un talento o di un genio, abbiamo testimonianza in alcuni casi di cataloghi di progetti letterari mai realizzati.

lunedì 5 settembre 2011

da Orazio, Carmina, I, 11




Non chiedere (non lo si può sapere)
quale sorte per me, quale per te,
Candida, il cielo abbia dato in serbo:
lascia stare gli oracoli astrusi.
Meglio prendersi quello che comunque
verrà! Se Giove dà molti altri inverni

o questo solo – che sconvolge adesso
le già róse scogliere del Tirreno, -
sii saggia, bevi e ridimensiona
una speranza troppo grande. Mentre
parliamo, ecco, questa vita fugge:
tu pensa a vivere, giorno per giorno, e
quanto più puoi diffida del domani.

19 ago.; 9 sett. 1999

Bearded Collie


La letteratura è follia e Pietro si era illuso di poterne evitare le conseguenze. Invece, nessuno meglio di lui, in quanto lui, ne conosceva dolcezze e veleni.
Da circa tre anni Pietro soffriva per amore, in quanto si era impegolato in una relazione senza capo né coda con un Bearded Collie britannico che gli aveva regalato il suo barbiere. Prendersi cura del cagnetto gli era tuttora difficile: si era pentito della scelta ma d’altra parte ormai si era affezionato a lui e non sapeva né voleva più liberarsene.
Fatto sta che l’animale richiedeva impegno e tempo che lui non sempre aveva a disposizione, specialmente la mattina per farlo uscire di casa o di sera quando andava a lavorare in un pub fino a ora tarda e il cane doveva restare da solo. Affermare che ci fosse un rapporto tra Pietro e il cane è innegabile, ma che si amassero è un’iperbole o è una frase letteraria: del resto, lui era capace di rivolgersi al Bearded Collie come se si trattasse di una persona. Si era venuto così a creare un circolo vizioso: la penuria della realtà quotidiana e delle relazioni affettive lo avevano portato alla realtà virtuale. C’era però un motivo di squilibrio tra la rappresentazione virtuale della situazione di Pietro e la realtà pratica e quotidiana che viveva. Questo squilibrio assumeva aspetti quasi fisici, Pietro era portato a somatizzare e soffriva di attacchi di panico, per superare i quali erano sufficienti tre gocce di Fiori di Bach e dopo pochi minuti tutto rientrava nella norma. Tornava allora a guardare le cose con più serenità.
A lui non gliene importava granché: nemmeno aveva disdegnato la frequentazione di siti porno, e adesso li voleva zoofili! Ma tutto questo lo aveva allontanato dalla realtà, ossia da una ricerca concreta del piacere carnale. Tranne rare eccezioni, aveva finito per costruirsi un mondo parallelo attraverso il computer. Per tre anni questa modalità aveva funzionato, effettivamente aveva conosciuto alcune persone che poteva incontrare o almeno sentire per telefono; altre ne aveva ritrovate ma soprattutto, infine, coglieva una proiezione narcisistica nei suoi bisogni di comunicazione.
Era giunto a un bivio, gli si imponeva un cambiamento delle sue abitudini, gli avrebbe giovato una nuova presa di coscienza cui finalmente era sul punto di approdare. Pietro era uno scrittore, il lavoro al computer era inevitabile per lui, poteva sentire di godere di una certa notorietà, ma essa non cambiava di una virgola la sua vita quotidiana e lavorare al computer non implica necessariamente la necessità di connettersi a internet o interagire col social network e inoltre, nel momento attuale della letteratura italiana, non tutto può essere delegato al libro. C’è chi collabora con riviste e giornali, di carta e non per forza on line, traendone guadagno economico, e mette i propri pezzi in rete o, se è una firma, saranno la rivista o il giornale a pubblicarli sul web. Non vanno demonizzati i fantasmi di internet. Se la sua fama è più mite, si industrierà da sé a moltiplicarla postando note e articoli sui siti che ha a disposizione. La concorrenza è molto forte e non sai mai come regolarti, sbagli a non esserci insieme agli altri e sbagli lo stesso a umiliare il tuo orgoglio, o a esaltare il tuo narcisismo, nell’arengo comune e a una serie di rapporti sociali fatti di comunicazioni, scritti, interventi di vario genere e sui più disparati argomenti, dalla politica al cinema, dalla filosofia al salotto letterario sul social network corrispondeva uno squallore inaudito nella vita reale, accompagnato da un mal celato sentimento di desolazione, suo non meno che degli altri, dissimulato perfino tra amici per ragioni di semplice educazione, o ipocrisia sociale. E qui si scopriranno anche potenziali nemici o avversari, o amici e alleati di fatto, insieme all’ottusità e al pregiudizio. Lui si era convinto all’informatica solo tardivamente, e tuttora, quando ne sentiva il bisogno, scriveva non dico a macchina come nel Novecento, ma addirittura a penna sulla carta paziente. Che cosa fare, dunque? Si accorgeva che la sua vita era sempre stata così, anche prima di internet, come in una serie di battaglie più o meno tutte vinte. Capì che per gestire meglio la sua problematica attuale doveva continuare a comportarsi come aveva sempre fatto. Bisognava assumere la vita virtuale come un dato di fatto reale, cioè considerarla quel che realmente era, tautologicamente: virtualità. Con la differenza che adesso era in grado di guardare con occhio più critico e diffidente agli inganni che gli derivavano dalla rete. In altri termini, sarebbe bastato interagire con  la vita con un maggiore distacco; ciò avrebbe portato a compensare i suoi irrisolti non già col virtuale, che alla lunga non risolve, ma portando i suoi desideri e i suoi bisogni sul piano letterario, che sarebbe risultato inevitabilmente più ricco. Non va bene aprire la propria intimità a tutto il mondo, questo è il lavoro della follia.
Dettesi queste cose, Pietro accese il computer. 


sabato 3 settembre 2011

Entro dipinta gabbia (bozza)

Giacomo è un giovane conte di trentasei anni, belloccio, benché affetti con una certa teatralità, come per gioco, una leggera incurvatura della schiena, che aumenta il suo fascino di grande scrittore e misconosciuto pensatore. 
Lo circonda la fama della sua solitudine, da lui stesso in parte alimentata e di persona indesiderabile e cattiva, a causa dei suoi giudizi perentori sulla letteratura e sulla morale. Ma sono dicerie in gran parte ingiuste. Del resto, quasi tutto in Leopardi è esagerazione e maschera: è di salute cagionevole, è vero, ma lui per primo esaspera la propria situazione per conquistarsi l'affetto dei suoi amici che, in una certa misura, sono suoi complici; le sue lettere sono costruite al modo degli epistolari classici di Cicerone e di Petrarca, ossia non sono scritte tanto per comunicare con gli altri quanto piuttosto per trasmettere una specifica immagine di sé. 
Lo spazio del testo e quello della vita sono dunque un grande palcoscenico, sul quale Leopardi recita romanticamente e il suo stesso pessimismo, la sua filosofia sono una provocazione per scandalizzare i suoi lettori. 
Vive con lui un nobile napoletano di nome Antonio Ranieri, un letterato che ha già scritto qualcosa e che in questo 1834 ha ventotto anni. Antonio è biondo, bello, raffinato nei lineamenti e nei modi. 

venerdì 2 settembre 2011

The September Issue di R. J. Cutler


Ho trovato coinvolgente Grace Coddington, la direttrice creativa di Vogue America. Poi questo film è interessante per il ritmo, perché è incalzante come un thriller; per il senso estetico, e per la metafora. Se pure vogliamo tralasciare la moda e la morte in Leopardi, anche per non essere anacronistici come la romantica Grace a discapito di Anna Wintour, si può dire che c’è una sorta di Bildungsroman per immagini. Per esempio, la tensione-per: il film ne è colmo, di tensione per raggiungere un risultato di alta qualità. L'ambizione del resto è una qualità positiva. Mi ha colpito quando la Coddington consiglia al suo collega di non essere gentile con nessuno, neppure con lei, di concentrarsi nella direzione del lavoro, altrimenti non ce l'avrebbe fatta, perché - lo spiega dopo - un lavoro senza una direzione non ha senso. La Coddington è un'artista che segue una propria linea che peraltro, dice a un certo punto, con una certa autoironia, lei inventa lì per lì, anche rischiando di andare in conflitto con la Wintour. La sua è un'opposizione compatibile. Ma intanto la Coddington sembra davvero uscita da un quadro di Dante Gabriel Rossetti, è bellissima senza trucco attualmente non meno di quanto lo fosse ai tempi in cui faceva la modella.

Sandro De Fazi

24 agosto del 79 d.C.





Caio Plinio Cecilio Secondo (C. Caecilius Secundus) detto il Giovane (61-113 d.C., uno dei letterati più mediocri del periodo post-classico, sintomo della depressione culturale che, con luminose eccezioni, aveva oppresso la letteratura latina fin dall'età dei Claudi) nella lettera VI, 16 (Epistularum Libri) a Tacito (Plinio il Giovane sta al giornalismo come Tacito sta alla grande letteratura) è diventato per capriccio della sorte il testimonium fondamentale che abbiamo dell'immane catastrofe che il 24 agosto del 79 d.C., essendo imperatore Tito, seppellì Pompei, Ercolano e Stabia.
Gli antichi non sapevano neppure che quella montagna così amena che si slanciava maestosa sopra la città fosse un vulcano. Ignoravano che cosa fosse un vulcano, perché l'Etna veniva considerato un caso a parte, un'anomalia a sé. Ritenevano il formidabil monte / sterminator Vesevo, come Leopardi avrebbe chiamato il Vesuvio, non diverso dagli altri.
Era una città ricca Pompei, un centro pieno di vita, dove c'era tutto e il contrario di tutto, in piena estate, come a Roma: giovani, vecchi, donne, ladri, prostitute, prostituti, fioraie, schiavi, giochi, raggiri, il pullulare del foro, patrizi e umanità gaudente, una città giovane morta anzitempo, la disperazione degli amanti, basti pensare a Gli ultimi giorni di Pompei di Edward Bulwer-Lytton per farsene un'idea. Del mondo romano non conosceremmo con tanta accuratezza certi aspetti se quel 24 agosto del 79 d.C. la tragedia non fosse avvenuta.
Pure il ricercato Plinio il Giovane, da parte sua, sapeva godersi la vita, se è vero che redigeva i suoi scritti per passatempo durante i bagni, o pranzando o in lettiga. Fu la sua fortuna non seguire lo zio, il naturalista Plinio il Vecchio, da Miseno, dove si trovavano entrambi quel giorno, sulle quadriremi verso il punto da dove tutti fuggivano. È un singolare destino sapersi ancora integri e vivi, felici fino a poche ore fa, oppure magari tristi per alcuni casi personali ma ancora legati ai viventi e perciò pieni di speranza per il futuro e, allo stesso tempo, constatare che invece, inevitabilmente, all'improvviso, la vita non sarà ancora per molto.
Faceva un caldo terribile. Fino al primo pomeriggio non c'era stata che una nube gigantesca che si alzava dal monte, simile a un pino ramificato, a causa del vento, in molte direzioni; poi la situazione peggiorò di ora in ora. In pieno giorno fumo, fulmini, il terremoto, i lapilli, le pietre, la lava. Uno scenario invivibile. Urla, corse di chi va inutilmente, non mancò chi si chiuse in casa e morì sotto il crollo del tetto appesantito dalla lava, fu a un certo punto impossibile anche uscire di casa, perché la natura impazzita aveva ostruito tutte le strade.
Gli abitanti di Ercolano videro quel che stava avvenendo nella vicina Pompei, capirono che l'inevitabile si sarebbe abbattuto anche su di loro e che niente e nessuno avrebbe mai potuto aiutarli, né i pompeiani né loro. Ancora vivi e salvi, però, gli ercolanesi, d'istinto, corsero verso la spiaggia. Senza ragione. Disperatamente. Per mare non era possibile  andare, i dintorni terrestri erano sconvolti dal Vesuvio, c'era il maremoto e Plinio il Vecchio s'era arrischiato per fare scienza e successivamente, sollecitato da un'invocazione d'aiuto di Rettina, moglie di Casco, per portare impossibili soccorsi a lei e ad altri, sarebbe morto per la cenere, le pomici, le pietre nere, l'aria resa irrespirabile dal monte sterminatore, dopo aver raggiunto la villa di Pomponiano a Stabia. Il mare era invalicabile ma l'istinto vitale spingeva i provvisoriamente incolumi nei pressi dell'acqua marina. Trovo estremamente poetico che in pericolo di morte gli abitanti di Ercolano, per sopravvivere, abbiano cercato il mare.
La paura li faceva regredire all'elemento primigenio, per istinto di sopravvivenza l'acqua è materna come il liquido amniotico che avvolge il nascituro, si cercava l'amicizia del mare, si confidava nelle acque, l'acqua che è inizio e fine, le acque azzurre e leggere, mosse da un lieve, appena percepito vento contrario come quelle che avevano accolto Virgilio, oppresso dal mal di mare, che da Brindisi cercava di tornare a Roma per bruciare il poema nel romanzo di Broch, l'acqua è soprattutto principio energetico, come il sole, che dà vita e rinforza nel vivere, come l'Eneide che avrebbe vissuto contro la volontà di Virgilio morente, per ordine di Augusto. Ma a casa non si può rimanere, neppure per strada, la città è inabitabile o lo sarà ormai tra poco, non ha senso stare e sarebbe pazzesco restare, suicida è restare quanto è folle fuggire e l'unica ragione è tentare il mare, sragionando e sperando che la situazione cambi, che il mare si acquieti, che in cielo ritorni il sole, che il monte la smetta di vomitare quell'indescrivibile incubo. La sragione assicura che stare sulla spiaggia è mortale quanto insistere a Ercolano, se a Pompei c'è la morte non è detto che essa arrivi fin qui, andiamo verso il Tirreno, si deve restare sulla riva che è un tempio naturale nel quale innalzare preghiere agli dèi, fratelli del mare, affinché ascoltino.

Sandro De Fazi


pubblicato in "POESIA ITALIANA" 22/8/10

Copyright©2010 Sandro De Fazi














                                                                                            

Il transfert attivo nella didattica del latino: tra Tesnière-Haap e il metodo eclettico






Il metodo tradizionale
Nec scire fas est omnia
Orazio, Odi, IV, 4, 22

Nel passato il latino veniva insegnato soprattutto secondo il classico procedimento grammaticale-nozionistico[1], che si basava perlopiù sulla memorizzazione della grammatica, intesa nel senso completo di morfologia e sintassi. È così che i contenuti sono stati tramandati anche a noi che faticosamente oggi proviamo ad uscire dall’impasse come una crisalide dal bozzolo.
Certo il lavoro del docente era più semplice: ci si aspettava che lo studente memorizzasse senza sosta e chi non lo faceva risultava agli occhi della classe e del docente come una sorta di appestato su cui non meritava neanche di spendere due parole di incoraggiamento, altro che corsi di recupero obbligatori!
Ma i nostri ragazzi oggi sono del tutto disabituati ad utilizzare l’organo della memoria, complice anche un sistema che forse per quanto riguarda la scuola primaria non è così ineccepibile come sbandierato. Non scordiamo che nell’antico ordinamento scolastico la morfologia latina si affrontava alle medie, con tre anni a disposizione solo per imparare le declinazioni e le forme verbali. Ai giorni nostri invece gli alunni approcciano la materia all’età di 14-16 anni in cui, come recenti studi hanno dimostrato si verifica un indebolimento delle facoltà mnemoniche e non il contrario, devono imparare in fretta, spesso assillati a loro volta da un insegnante ansioso di arrivare alla fine del programma, come un maratoneta di avvistare lo striscione dell’ultimo chilometro. Si chiede loro di fare uno sforzo proprio nel momento meno indicato: quello dell’adolescenza e di cambiamenti fisici importanti, a volte molto traumatici per l’individuo. Non si può pretendere che studino e basta ed è altresì evidente che non è più possibile lasciarli soli con il problema, come è stato fatto con noi. Bisogna aiutare con tutto i ragazzi a capire l’importanza dello studio individuale e certamente un procedimento didattico molto pedante, suddiviso in blocchi rigidi non aiuta.
Lo studente non deve sentirsi un novello Sisifo che inutilmente cerca di far arrivare massi sul cucuzzolo di una montagna, ma parte integrante di un processo creativo: se non ci fosse lui vivo e vegeto e capace di ragionare e influire sugli eventi futuri, lo studio del passato non avrebbe senso. Non si tratta di uno sterile esercizio da topi di biblioteca, ma del perseguire una meta precisa, conseguire un risultato soddisfacente è un’esigenza prima dell’alunno e poi, di riflesso, del docente e non il contrario.

Il metodo strutturale

Nulla che sia del tutto nuovo è perfetto
Cicerone, Brutus

Già diversi anni fa è stato presentato nel panorama didattico-pedagogico il modello Tesnière-Haap, si tratta di un metodo strutturale, che cioè si basa sull’acquisizione di competenze-base, tramite le quali l’alunno ricostruisce un quadro unitario di un argomento o di una lingua. Su queste basi ha preso vita in seguito il cosiddetto “metodo globale”, un procedimento soprattutto induttivo che è attualmente usato per l’insegnamento delle lingue moderne. Il fulcro della questione è qui completamente invertito rispetto ai metodi tradizionali che procedevano per deduzione e quindi secondo lo schema: regola generale-applicazione-sottoregole-applicazione-eccezioni-applicazione.
È inutile sottolineare che molte sono state le perplessità espresse dagli esperti sulla cosiddetta “didattica breve” che si avvale di un metodo per alcuni inadatto allo studio di una lingua conclusa come appunto il latino, che mai verrà “parlata” dagli studenti.
Tra le critiche mosse a questo modello didattico, due a mio parere meritano particolare interesse da parte di un docente di latino e cioè:
  • Non si può fare a meno della regola grammaticale in una lingua che appunto è conclusa o come generalmente o come generalmente si dice, utilizzando un’espressione che personalmente detesto è “morta”
  • Il latino che noi traduciamo o proponiamo agli studenti non è quello parlato, sul quale peraltro non sappiamo quasi nulla, ma una variante personale dell’autore in questione, una precisa testimonianza all’interno di un sistema linguistico, che prima di tutto esprimeva i valori morali, politici e civili di una civiltà, tesa a lasciare di sé un’idea precisa e fortemente idealizzata ai posteri.
Lo studio della morfologia quindi non è un “di più” da cui si può prescindere, ma acquisisce di per sé un valore pedagogico da non sottovalutare. Il problema non è quindi “grammatica sì – grammatica no”, ma far capire agli studenti l’utilità dello studio mnemonico, senza peraltro caricarlo di un valore assoluto o addirittura “ontologico”, come facevano i nostri predecessori in un tempo non troppo lontano.
Comunque sia un moderno docente deve aver sempre ben presente, secondo me, anche i vantaggi che l’introduzione nella didattica di tale metodo comporta e soprattutto:
1)      si tratta di un procedimento diretto che, se vogliamo,”toglie la polvere dalla storia” è capace di mettere in contatto direttamente lo studente con la materia.
2)      tale  contatto, se ben sfruttato, genera nel discente un “transfert attivo”[2], che lo mette da subito nella condizione di considerarsi protagonista dell’iter didattico.
Ma vediamo più da vicino quali sono le novità positive che questo modello di apprendimento comporta.
La didattica breve, accusata dai critici “tout court” di semplicismo, si basa sugli elementi costitutivi di uno studio o di una disciplina e su questi adatta un procedimento formativo.
In questo metodo formale-comparativo, nell’esercizio di traduzione, l’attenzione si concentra sul verbo, chiamato “valenza”, come se ci trovassimo davanti ad una reazione chimica. Esso, appunto lega a sé, mediante le regole morfologiche sintattiche gli “attanti”, cioè gli elementi direttamente coinvolti dal transitare dell’azione (soggetto, complemento oggetto, complemento d’agente e di causa efficiente) e i “circostanti” cioè tutti i complementi che possono comparire nel periodo. Secondo i legami che instaura con gli altri elementi sintattici il verbo è definito a-valente quando è impersonale, monovalente quando è intransitivo, bivalente, quando può essere usato sia transitivamente che intransitivamente.
Tutto l’apparato morfosintattico di una lingua, quindi anche del latino, viene fatto ruotare intorno a questo schema, che poi non è così semplice o semplicistico come sembra.

Il metodo selettivo

Homines dum docent discunt
Seneca, Lettere a Lucilio

Come dice Marino Faggella in un suo interessante studio sulla didattica del latino, il metodo migliore che l’insegnante moderno può utilizzare per avvicinare gli studenti all’amore e quindi allo studio del latino è quello eclettico, che tenga conto di tutta l’esperienza fatta dai docenti in materia, se possibile dall’era della Riforma Gentile fino ai nostri giorni.
È quindi indispensabile, fin dalle prime battute, far sentire lo studente “protagonista attivo” del progetto educativo che lo riguarda e lo coinvolge. Come? Innanzitutto procurandosi che si impadronisca del lessico, che utilizzi tutti i mezzi a sua disposizione, non solo la nuda memoria, ma anche liste, rubriche, schede, per acquisire una competenza linguistica sempre più ampia. Questo è solo il primo passo per procedere oltre: solo se lo studente è in grado di riconoscere le parole all’interno di un testo si potrà sin dai primi mesi della prima liceo affrontare la lettura di testi significativi, magari con traduzione a fronte. Se questo approccio riesce, avremo evitato il rischio che lo studio grammaticale sembri fine a se stesso, anzi saranno gli stessi studenti a porre domande a sollecitare l’insegnante a proseguire nello studio della morfologia per ricevere una risposta alle curiosità e ai dubbi suscitati dalla proposta di un passo di cui si può interpretare, con le proprie forze, solo un venti per cento.
È fondamentale nella prima fase di studio dare molta importanza ad una corretta lettura[3]. Spesso noi insegnanti tralasciamo questo aspetto, presi dalle esigenze del programma e dalla fondata preoccupazione che per i nostri alunni sia più importante imparare la declinazione e la flessione del verbo, piuttosto che le regole della pronuncia. È umano che questo avvenga, ma è anche controproducente. Uno studente che si accorgerà che l’insegnante non dà peso alla lettura recepirà un messaggio sbagliato: che la lingua latina non ha dignità, rispetto alle lingue moderne, che leggere bene sottragga solo del tempo alla ricerca dei termini sul dizionario e al riconoscimento delle strutture sintattiche. Alcuni pensano che una corretta lettura e pronuncia del latino debbano in definitiva essere demandate al docente del triennio, in previsione di una scansione metrica, ma secondo me non c’è niente di più sbagliato.
[…]
Personalmente  amo gli spazi aperti e una divisione rigida mi mette non poca ansia. Confesso apertamente che spesso e volentieri ho fatto nel corso del corrente anno scolastico delle “incursioni” nei programmi futuri e non sono per niente pentita perché è proprio da quelle esperienze che ho tratto le migliori soddisfazioni.
Il punto di partenza dell’azione didattica, la finalità concreta dello studio del latino è quella di mettere lo studente in grado di tradurre, deve esserci quindi l’analisi del verbo, vera “cellula” dell’attività di traduzione, più importante di qualsiasi altro concetto. Per esempio, non c’è bisogno di appesantire con una pretesa eccessiva di memorizzazione da parte dello studente lo studio della sintassi, di cui alcune regole sono puramente intuitive e diventano ovvie, una volta introdotto opportunamente il discente nel sistema linguistico latino. […]

Conclusioni

E io rimango in forse, / che no e sì nel capo mi tenciona
Dante, Inferno VIII, 110-111

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Dal mio punto di vista devo ammettere che ho perseguito unicamente due scopi durante l’attività di questo anno scolastico: 1) convincere gli studenti che senza una partecipazione attiva da parte loro non si imapra alcuna disciplina; 2) sviluppare in loro un forte senso critico, una capacità di giudizio necessario.
Molti sono i colleghi che non la pensano come me. È opinione diffusa che nelle prime due classi del liceo tutti gli sforzi dell’insegnante debbano essere tesi alla trasmissione di un metodo solido di studio, che consenta allo studente di affrontare il triennio, quando si aggiungeranno i contenuti.
Francamente la trovo una visione un po’ restrittiva, in un certo senso è come se si dicesse che il collega del biennio è un ottimo gregario che tira la volata ai numeri uno e mi scuso all’istante della metafora sportiva.
[…]
Spesso in questo anno scolastico ho inserito nelle verifiche domande che non avevano risposta negli appunti o sul libro di testo, ma a cui si poteva far fronte con il ragionamento o intuitivamente. Le prime volte solo alcuni si sono cimentati nella risposta, molti hanno scritto qualcosa che era stata detta a lezione e che speravano fosse inerente all’argomento, altri hanno “saltato” il quesito incriminato. Alla fine dell’anno però le percentuali si sono invertite e molti sono quelli che “osano” di testa loro. Buon segno. Non ha importanza, per ora, che “ci indovinino” o no, come diceva Bertold Brecht “l’intelligenza non è non commettere errori, ma scoprire subito il modo di trarne profitto”[4].

Silvia Alessi, Riflessioni sulla didattica del latino nei licei, in Schol(i)a - Rivista destinata ai docenti di letteratura Latina e Greca , N° 3 – Anno 11 – 2009, Roma, Pagine Edizioni, pp. 73-90.


[1] M. Faggella, Latina didaxis: aggiornamenti sulla didattica del latino nella scuola liceale, percorso modulare tenuto nell’Università della Basilicata.
[2] M. Faggella, in op. cit., Il transfert, pp. 18-19.
[3] M. Faggella, in op. cit., Lo studente protagonista attivo, pp. 24-25.
[4] Bertold Brecht, La linea di condotta (1930), a cura di Emilio Castellani, Einaudi 1974.

La lex Iulia de adulteriis coercendis (di Eva Cantarella)



Nel 18 a.C. viene approvata, su proposta di Augusto, la lex Iulia de adulteriis coercendis: una legge fondamentale, la cui importanza nella storia del diritto romano è assai maggiore di quella che il nome lascia supporre.
La legge, infatti, non si limitava a sottoporre a nuova regolamentazione la violazione della fede coniugale. Inserita nel quadro generale della politica demografica e moralizzatrice di Augusto[1] essa stabiliva, in linea assai più generale, che fosse punito come crimen (vale a dire come delitto pubblico, perseguibile su iniziativa di qualunque cittadino) qualsiasi rapporto sessuale al di fuori del matrimonio e del concubinato, eccezion fatta per quelli con le prostitute e con donne a queste equiparate, o in ragione del mestiere esercitato, o perché già condannate, in precedenza, per condotta immorale.[2]


Il termine adulterio, insomma, è usato da Augusto in senso lato, e comprende anche lostuprum[3]. La sferza della morale sessuale, sostanzialmente, viene sottratta, con la sua legge, alla competenza della giurisdizione familiare, e diventa «affare di Stato»: come dicevamo, un momento fondamentale sia nella storia del diritto romano sia nella storia dei rapporti fra etica e diritto. Ma veniamo, ciò premesso, al problema che ci interessa più da vicino.
La lex Iulia, dunque, punisce come crimine anche lo stupro: ma lo stupro, come sappiamo, si commette, oltre che con le vergini e le vedove, anche cum puero[4]: dobbiamo dedurre che essa sottopose a nuova regolamentazione anche i rapporti omosessuali?
Alcuni autori, come Christius e Mommsen, sono dell’opinione che questo sia da escludere[5]. Altri, invece, come Gonfroy, Csillag, Richlin, e Dalla, ritengono che la legge si proponesse di regolare l’intero campo della sessualità, ivi compresa l’omosessualità maschile[6]. I primi osservano che l’omosessualità non rientra nel campo degli intenti legislativi di Augusto, il cui obiettivo era la restaurazione della morale familiare. I secondi citano a sostegno della loro ipotesi la testimonianza di alcune fonti, che pertanto esamineremo.
Accanto al passo di Modestino (più volte citato) che nelle Regulae scrive che lo stupro si commette anche cum puero, i passi che sembrano includere lo stupro omosessuale nel campo d’intervento della lex Iulia sono due. Il primo è un passo delle Pauli receptae Sententiae, secondo il quale chi violenta un maschio libero è punito con la morte, e colui che ha subìto volontariamente uno stupro omosessuale è punito con la confisca di metà del patrimonio, ed è privato della capacità di disporre per testamento di una parte maggiore[7]. Il secondo è un passo delle Istituzioni di Giustiniano, ove leggiamo che la lex Iulia non si limitava a punire coloro che mettevano in pericolo gli altrui matrimoni, ma anche «eos qui cum masculo infandam libidinem exercere audeant», vale a dire coloro che avessero osato sfogare con un uomo la loro vergognosa libidine[8].

  

Ma, a ben vedere, si tratta di due testimonianze assai poco attendibili.
Le Pauli receptae Sententiae, per cominciare, non sono autentiche: esse sono state ricostruite dai moderni sulla base di passi attribuiti a Paolo in opere postclassiche[9]. E, a ben vedere, riconducono alla lex Iulia de adulteriis disposizioni che questa legge non conteneva, come ad esempio la punizione dello stupro violento[10].
Una considerazione, questa, già di per sé sufficiente a ingenerare non pochi dubbi sulla loro attendibilità. Dubbi riconfermati dal fatto che, secondo le Istituzionidi Giustiniano, la pena prevista dalla lex Iulia per l’omosessualità non sarebbe stata una pena pecuniaria, come affermano le Pauli Sententiae, bensì la morte.
Oltre a contraddirsi l’un con l’altro quando parlano delle pene, inoltre, le Sententiae e le Istituzioni si contraddicono anche laddove alludono ai comportamenti omosessuali che la lex Iulia avrebbe punito: le Sententiae, infatti, parlano di una pena a carico dei soli omosessuali passivi; le Istituzioni, invece, anche di quelli attivi. E per finire va rilevato che, secondo le Istituzioni, questa pena sarebbe stata prevista, dalla lex Iulia, a carico sia degli omosessuali sia degli adulteri: il che è assolutamente falso. La pena prevista dalla lex Iulia per l’adulterio, infatti, non fu la morte, ma la relegatio in insulam, accompagnata da una sanzione patrimoniale[11]. La regola stabilita dal secondocaput della legge, che concedeva l’impunità al marito e al padre dell’adultera qualora uccidessero il complice di costei (e, solo nel caso del padre, qualora uccidesse anche la figlia) era la previsione di un’impunità speciale, concessa esclusivamente al padre e al marito, e subordinata al verificarsi di una serie di circostanze (quali la sorpresa degli adulteri in flagranza), specificamente e tassativamente elencate dalla legge[12]. Ma la pena per l’adulterio, in linea generale, non era la morte.


Come risolvere il problema, che conclusioni trarre da tutto questo? Evidentemente, considerando che né le Sententiae di Paolo né le Istituzioni di Giustiniano riportano le regole della lex Iulia: esse riportano, in realtà, le regole in vigore in un’età successiva, quella postclassica e giustinianea: le regole, insomma, che vennero stabilite nei secoli durante i quali, come vedremo, la repressione dell’omosessualità venne progressivamente inasprita ed estesa, sino a coprire, effettivamente, ogni e qualunque manifestazione di omosessualità, senza distinzione di ruoli.
A fare pensare che la lex Iulia abbia sottoposto a regolamentazione l’omosessualità, dunque, non rimane che un unico testo: un passo di Papiniano, nel quale leggiamo che colui che ha prestato la sua casa perché vi si commetta un adulterio o uno stupro (ivi compreso quello omosessuale) viene punito come adultero[13].


Ma trattasi a sua volta, a ben vedere, di un passo assai sospetto. Lo stupro omosessuale, infatti, viene definito – abbastanza singolarmente – stuprum cum masculo. Un’espressione estranea alle fonti classiche che invece parlano sempre di stuprum cum puero. Il passo, dunque, fu evidentemente rimaneggiato in età postclassica, quando la legislazione imperiale tentò di ampliare il campo dei rapporti omosessuali vietati, e la parola «ragazzo» venne pertanto sostituita con «uomo»[14]. E anche qualora si volesse escludere l’ipotesi del rimaneggiamento, resterebbe aperta, comunque, la possibilità di pensare – come fa Mommsen – che Papiniano faccia riferimento all’unico caso nel quale, del tutto eccezionalmente, la legislazione augustea avrebbe preso in considerazione questo campo della sessualità[15]. Senza dire, infine, che a confermare in modo inequivocabile che la lex Iulia si occupò soltanto del comportamento eterosessuale interviene una serie di prove positive, rappresentata dai passi dei numerosi autori che, in età successiva a quelli in cui lalex Iulia fu approvata, riconducono la punizione dell’omosessualità alla sola lex Scatinia.
Svetonio, come sappiamo, dice che Domiziano condannò alcune persone in base alle disposizioni di questa legge[16]: se la lex Iulia le avesse sostituite, come avrebbe potuto farlo?


Nella seconda Satira di Giovenale inoltre (come pure abbiamo già avuto modo di vedere) Laronia osserva che se è vero che le donne che commettono adulterio non sono più punite, perché la lex Iulia è stata dimenticata, è anche vero che neppure i molles sono puniti, perché altrettanto dimenticata è stata la lex Scatinia[17].
Evidentemente, dunque, le due leggi concorrevano, l’una accanto all’altra, e senza interferire l’una con l’altra, a regolare i due diversi settori della sessualità.
Non è tutto: nei primi due decenni del terzo secolo, Tertulliano allude alla lex Scatinia come a una legge tuttora vigente[18]. E nel quarto secolo Ausonio conferma l’esattezza di questo riferimento[19].
Sul finire dello stesso secolo, Prudenzio si chiede perché mai egli dovrebbe onorare Giove:

Qui si citetur legibus vestris reus,
laqueis minacis implicatus Iuliae
luat severam victus et Scatiniam[20].


Se Giove dovesse essere giudicato secondo le leggi romane – egli dice – oltre ad essere preso nei lacci della lex Iulia, sarebbe condannato e punito severamente in base alla lex Scatinia. Giove infatti, ben noto per le sue avventure extraconiugali, non disdegnava gli amori omosessuali, come dimostra la sua celebre storia con Ganimede: per questi amori, pertanto, avrebbe dovuto essere condannato in base alla lex Scatinia.
Ce n’è quanto basta per concludere, senza troppe esitazioni, che Augusto non si interessò minimamente del problema, e che la legislazione repubblicana rimase inalterata fino al momento in cui, a partire dal quarto secolo, gli imperatori decisero di intraprendere una nuova politica in materia: una politica repressiva, sempre più severa, volta in un primo momento a tentare di frenare il dilagare dell’omosessualità fra adulti, giungendo a stabilire la pena di morte per la passività, e successivamente a estendere il campo dei comportamenti vietati, punendo anche l’omosessualità attiva.

Augustus pontifex maximus

[1] Sulla quale vedi da ultimo E. Cantarella, L’ambiguo malanno, cit., p. 168 sgg.
[2] Cfr. Paul. Sent. 2,26,11; Dig. 25,7,1,2 (Ulp. 2 ad leg. Iul. et Pap.)
[3] Dig., 50,16,101 (Mod., 9 diff.) e Dig., 48,5,6,1. (Ulp.,de adult.).
[4] Dig., 48,5,35 (34) (Mod., 1 reg.)
[5] J. Christius, op. cit. pp. 14-15; T. Mommsen, Le droit penal, cit., II, p. 432.
[6] Cfr. F. Gonfroy, Un fait, cit., p. 308 sgg.; P. Csillag,The Augustan Laws on Family Relations, cit., p. 181; A. Richlin, The Garden of Priapus, cit., Appendix 2, p. 224 e D. Dalla, «Ubi Venus mutatur», cit., secondo il quale lalex Iulia, pur non abrogando la Scatinia, l’avrebbe tuttavia modificata.
[7] Paul. Sent. 2,26-12-13. Cfr. Mos. Et Rom. Legum Coll., V, II, 1-2.
[8] Inst., 4,18,4.
[9] Trattasi, più precisamente di opera redatta probabilmente nell’età di Diocleziano, alla quale, nel 327-328, Costantino riconobbe valore ufficiale (cfr. Cod. Theod., 1,4,2), e che fu rimaneggiata fino alla metà del V secolo. Cfr. J. Gaudemet, La formation du droit seculier et de droit de l’Eglise aux IV° et V° siècles, Paris, 1978, p. 95.
[10] Sulla repressione dello stupro violento, oltre a quanto già detto in precedenza nel testo, vedi diffusamente J. Coroï, La violence en droit criminel romain, cit. e alcune considerazioni di F. Gonfroy, Un fait, cit., p. 311 sgg.
[11] Cfr. E. Cantarella, L’ambiguo malanno, cit, p. 168 sgg., con bibliografia.
[12] Crf. E. Cantarella, Adulterio, omicidio legittimo e causa d’onore, cit., p. 163 sgg.
[13] Dig., 48,5,9 (Pap., 2 de adult.)
[14] Cfr. in questo senso C. Ferrini, Esposizione storica, cit.,p. 367. Secondo Dalla invece, l’espressione sarebbe stata coniata dalla lex Iulia (cfr. «Ubi Venus Mutatur», cit., pp. 106-107).
[15] T. Mommsen, Le droit penal, cit., II, p. 427, n. 4.
[16] Svet., Dom., 8,3.
[17] Juven., 2,36-48.
[18] Tertull., de monog., 12.
[19] Aus., Epigr., 91.
[20] Prud., Peristeph., 10,204.

Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, BUR 1995, pp. 182-186.


Il paradosso del formatore egocentrico / Narrazione delle pratiche didattiche


Applicazione didattica:
1) scegliere un linguaggio che abbia significato per chi ascolta
2) usare il linguaggio per una molteplicità di funzioni
3) usare il linguaggio per molteplici situazioni = adattarlo al quadro di riferimento dell'ascoltatore.
Il rapporto è sempre socializzato e comunicativo (Vygotskij vs. Piaget). L’ascoltatore è coinvolto totalmente come attore sociale quando l’autoreferenzialità apparente del formatore ha un senso come contro-esempio: è utile creare una situazione destabilizzante, almeno sul piano linguistico, fermo restando il punto di ancoraggio del discorso specifico. Si tratta in questo caso di un modello di apprendimento per influenzamento.

Sandro df

Amori immaginari: le donne degli elegiaci romani non sono mai esistite


L’elegia erotica romana è una delle forme d’arte più sofisticate di tutta la storia delle letterature; ed è anche una delle forme d’arte la cui natura è stata maggiormente misconosciuta. Due o tre decenni prima dell’inizio della nostra era, alcuni giovani poeti romani, Properzio, Tibullo e, nella generazione successiva, Ovidio, si misero a cantare degli episodi amorosi in prima persona, sotto il loro vero nome, riferendo i vari episodi a una sola ed unica eroina, designata con un nome mitologico; la mente dei lettori si popolò così di coppie immaginarie: Properzio e Cinzia, Tibullo e Delia, Ovidio e Corinna. […]


Benché adorata da nobili poeti (l’elegia è una poesia aristocratica), questa eroina non è una nobile dama, a differenza della sua posterità letteraria; che cosa dunque si suppone che sia? Una irregolare, una donna da non sposare: i nostri poeti non precisano e vedremo che non hanno bisogno di dire altro perché il genere elegiaco sia quello che è. Questi spasimanti sono pronti a tutto per la loro bella, tranne che a sposarla. Sarebbe pura villania, se fosse vero; ma, trattandosi di letteratura, cominciamo ad intravedere che cosa fu l’elegia romana: una poesia che invoca il reale solo per insinuare una impercettibile incrinatura tra il reale e se stessa; una finzione che, invece di essere coerente con se stessa e fare concorrenza allo stato civile, si smentisce da sola…
Il poeta spasimante, dal canto suo, dice “io” e parla di se stesso sotto il suo vero nome, Properzio o Tibullo: ci sembrerà dunque di ritrovarne i tratti nella sua posterità petrarchista e romantica e non avremo dubbi sul fatto che egli esprima la sua passione, che ci confidi le sue sofferenze e che percorra per noi tutti la strada maestra del cuore umano… Sennonché  Properzio dice “io”, come hanno fatto poi tanti autori polizieschi che hanno preso come pseudonimo il nome del loro detective o hanno dato a quest’ultimo il loro vero nome; questo ego è stato dunque inteso come la confessione di un poeta romantico. È stata presa in considerazione la sua anima, studiata la sua psicologia; si è riconosciuto in lui un virtuoso della gelosia, un temperamento doloroso e fiero. […]
E sono stati scritti volumi e volumi sulla storia della loro vita sentimentale, sulla cronologia delle relazioni con le amanti ipotetiche cantate sotto i nomi di Delia e Cinzia, sulle date dei loro litigi e sulle difficoltà e contraddizioni di tale cronologia. Il candore filologico è arrivato a tal punto che raramente, ci si è accorti di come il divertimento preferito dei nostri elegiaci sia giocare venti volte sull’equivoco  fra Cinzia, nome dell’eroina, e Cynthia, che designa il libro in cui viene cantata e che potrebbe legittimamente avere per titolo il nome dell’amata; essi sono infatti autori più che amanti e sono i primi a compiacersi della loro finzione.

Paul Veyne, La poesia, l’amore, l’Occidente, trad. it. di L. Xella, Il Mulino