venerdì 2 settembre 2011

The September Issue di R. J. Cutler


Ho trovato coinvolgente Grace Coddington, la direttrice creativa di Vogue America. Poi questo film è interessante per il ritmo, perché è incalzante come un thriller; per il senso estetico, e per la metafora. Se pure vogliamo tralasciare la moda e la morte in Leopardi, anche per non essere anacronistici come la romantica Grace a discapito di Anna Wintour, si può dire che c’è una sorta di Bildungsroman per immagini. Per esempio, la tensione-per: il film ne è colmo, di tensione per raggiungere un risultato di alta qualità. L'ambizione del resto è una qualità positiva. Mi ha colpito quando la Coddington consiglia al suo collega di non essere gentile con nessuno, neppure con lei, di concentrarsi nella direzione del lavoro, altrimenti non ce l'avrebbe fatta, perché - lo spiega dopo - un lavoro senza una direzione non ha senso. La Coddington è un'artista che segue una propria linea che peraltro, dice a un certo punto, con una certa autoironia, lei inventa lì per lì, anche rischiando di andare in conflitto con la Wintour. La sua è un'opposizione compatibile. Ma intanto la Coddington sembra davvero uscita da un quadro di Dante Gabriel Rossetti, è bellissima senza trucco attualmente non meno di quanto lo fosse ai tempi in cui faceva la modella.

Sandro De Fazi

24 agosto del 79 d.C.





Caio Plinio Cecilio Secondo (C. Caecilius Secundus) detto il Giovane (61-113 d.C., uno dei letterati più mediocri del periodo post-classico, sintomo della depressione culturale che, con luminose eccezioni, aveva oppresso la letteratura latina fin dall'età dei Claudi) nella lettera VI, 16 (Epistularum Libri) a Tacito (Plinio il Giovane sta al giornalismo come Tacito sta alla grande letteratura) è diventato per capriccio della sorte il testimonium fondamentale che abbiamo dell'immane catastrofe che il 24 agosto del 79 d.C., essendo imperatore Tito, seppellì Pompei, Ercolano e Stabia.
Gli antichi non sapevano neppure che quella montagna così amena che si slanciava maestosa sopra la città fosse un vulcano. Ignoravano che cosa fosse un vulcano, perché l'Etna veniva considerato un caso a parte, un'anomalia a sé. Ritenevano il formidabil monte / sterminator Vesevo, come Leopardi avrebbe chiamato il Vesuvio, non diverso dagli altri.
Era una città ricca Pompei, un centro pieno di vita, dove c'era tutto e il contrario di tutto, in piena estate, come a Roma: giovani, vecchi, donne, ladri, prostitute, prostituti, fioraie, schiavi, giochi, raggiri, il pullulare del foro, patrizi e umanità gaudente, una città giovane morta anzitempo, la disperazione degli amanti, basti pensare a Gli ultimi giorni di Pompei di Edward Bulwer-Lytton per farsene un'idea. Del mondo romano non conosceremmo con tanta accuratezza certi aspetti se quel 24 agosto del 79 d.C. la tragedia non fosse avvenuta.
Pure il ricercato Plinio il Giovane, da parte sua, sapeva godersi la vita, se è vero che redigeva i suoi scritti per passatempo durante i bagni, o pranzando o in lettiga. Fu la sua fortuna non seguire lo zio, il naturalista Plinio il Vecchio, da Miseno, dove si trovavano entrambi quel giorno, sulle quadriremi verso il punto da dove tutti fuggivano. È un singolare destino sapersi ancora integri e vivi, felici fino a poche ore fa, oppure magari tristi per alcuni casi personali ma ancora legati ai viventi e perciò pieni di speranza per il futuro e, allo stesso tempo, constatare che invece, inevitabilmente, all'improvviso, la vita non sarà ancora per molto.
Faceva un caldo terribile. Fino al primo pomeriggio non c'era stata che una nube gigantesca che si alzava dal monte, simile a un pino ramificato, a causa del vento, in molte direzioni; poi la situazione peggiorò di ora in ora. In pieno giorno fumo, fulmini, il terremoto, i lapilli, le pietre, la lava. Uno scenario invivibile. Urla, corse di chi va inutilmente, non mancò chi si chiuse in casa e morì sotto il crollo del tetto appesantito dalla lava, fu a un certo punto impossibile anche uscire di casa, perché la natura impazzita aveva ostruito tutte le strade.
Gli abitanti di Ercolano videro quel che stava avvenendo nella vicina Pompei, capirono che l'inevitabile si sarebbe abbattuto anche su di loro e che niente e nessuno avrebbe mai potuto aiutarli, né i pompeiani né loro. Ancora vivi e salvi, però, gli ercolanesi, d'istinto, corsero verso la spiaggia. Senza ragione. Disperatamente. Per mare non era possibile  andare, i dintorni terrestri erano sconvolti dal Vesuvio, c'era il maremoto e Plinio il Vecchio s'era arrischiato per fare scienza e successivamente, sollecitato da un'invocazione d'aiuto di Rettina, moglie di Casco, per portare impossibili soccorsi a lei e ad altri, sarebbe morto per la cenere, le pomici, le pietre nere, l'aria resa irrespirabile dal monte sterminatore, dopo aver raggiunto la villa di Pomponiano a Stabia. Il mare era invalicabile ma l'istinto vitale spingeva i provvisoriamente incolumi nei pressi dell'acqua marina. Trovo estremamente poetico che in pericolo di morte gli abitanti di Ercolano, per sopravvivere, abbiano cercato il mare.
La paura li faceva regredire all'elemento primigenio, per istinto di sopravvivenza l'acqua è materna come il liquido amniotico che avvolge il nascituro, si cercava l'amicizia del mare, si confidava nelle acque, l'acqua che è inizio e fine, le acque azzurre e leggere, mosse da un lieve, appena percepito vento contrario come quelle che avevano accolto Virgilio, oppresso dal mal di mare, che da Brindisi cercava di tornare a Roma per bruciare il poema nel romanzo di Broch, l'acqua è soprattutto principio energetico, come il sole, che dà vita e rinforza nel vivere, come l'Eneide che avrebbe vissuto contro la volontà di Virgilio morente, per ordine di Augusto. Ma a casa non si può rimanere, neppure per strada, la città è inabitabile o lo sarà ormai tra poco, non ha senso stare e sarebbe pazzesco restare, suicida è restare quanto è folle fuggire e l'unica ragione è tentare il mare, sragionando e sperando che la situazione cambi, che il mare si acquieti, che in cielo ritorni il sole, che il monte la smetta di vomitare quell'indescrivibile incubo. La sragione assicura che stare sulla spiaggia è mortale quanto insistere a Ercolano, se a Pompei c'è la morte non è detto che essa arrivi fin qui, andiamo verso il Tirreno, si deve restare sulla riva che è un tempio naturale nel quale innalzare preghiere agli dèi, fratelli del mare, affinché ascoltino.

Sandro De Fazi


pubblicato in "POESIA ITALIANA" 22/8/10

Copyright©2010 Sandro De Fazi














                                                                                            

Il transfert attivo nella didattica del latino: tra Tesnière-Haap e il metodo eclettico






Il metodo tradizionale
Nec scire fas est omnia
Orazio, Odi, IV, 4, 22

Nel passato il latino veniva insegnato soprattutto secondo il classico procedimento grammaticale-nozionistico[1], che si basava perlopiù sulla memorizzazione della grammatica, intesa nel senso completo di morfologia e sintassi. È così che i contenuti sono stati tramandati anche a noi che faticosamente oggi proviamo ad uscire dall’impasse come una crisalide dal bozzolo.
Certo il lavoro del docente era più semplice: ci si aspettava che lo studente memorizzasse senza sosta e chi non lo faceva risultava agli occhi della classe e del docente come una sorta di appestato su cui non meritava neanche di spendere due parole di incoraggiamento, altro che corsi di recupero obbligatori!
Ma i nostri ragazzi oggi sono del tutto disabituati ad utilizzare l’organo della memoria, complice anche un sistema che forse per quanto riguarda la scuola primaria non è così ineccepibile come sbandierato. Non scordiamo che nell’antico ordinamento scolastico la morfologia latina si affrontava alle medie, con tre anni a disposizione solo per imparare le declinazioni e le forme verbali. Ai giorni nostri invece gli alunni approcciano la materia all’età di 14-16 anni in cui, come recenti studi hanno dimostrato si verifica un indebolimento delle facoltà mnemoniche e non il contrario, devono imparare in fretta, spesso assillati a loro volta da un insegnante ansioso di arrivare alla fine del programma, come un maratoneta di avvistare lo striscione dell’ultimo chilometro. Si chiede loro di fare uno sforzo proprio nel momento meno indicato: quello dell’adolescenza e di cambiamenti fisici importanti, a volte molto traumatici per l’individuo. Non si può pretendere che studino e basta ed è altresì evidente che non è più possibile lasciarli soli con il problema, come è stato fatto con noi. Bisogna aiutare con tutto i ragazzi a capire l’importanza dello studio individuale e certamente un procedimento didattico molto pedante, suddiviso in blocchi rigidi non aiuta.
Lo studente non deve sentirsi un novello Sisifo che inutilmente cerca di far arrivare massi sul cucuzzolo di una montagna, ma parte integrante di un processo creativo: se non ci fosse lui vivo e vegeto e capace di ragionare e influire sugli eventi futuri, lo studio del passato non avrebbe senso. Non si tratta di uno sterile esercizio da topi di biblioteca, ma del perseguire una meta precisa, conseguire un risultato soddisfacente è un’esigenza prima dell’alunno e poi, di riflesso, del docente e non il contrario.

Il metodo strutturale

Nulla che sia del tutto nuovo è perfetto
Cicerone, Brutus

Già diversi anni fa è stato presentato nel panorama didattico-pedagogico il modello Tesnière-Haap, si tratta di un metodo strutturale, che cioè si basa sull’acquisizione di competenze-base, tramite le quali l’alunno ricostruisce un quadro unitario di un argomento o di una lingua. Su queste basi ha preso vita in seguito il cosiddetto “metodo globale”, un procedimento soprattutto induttivo che è attualmente usato per l’insegnamento delle lingue moderne. Il fulcro della questione è qui completamente invertito rispetto ai metodi tradizionali che procedevano per deduzione e quindi secondo lo schema: regola generale-applicazione-sottoregole-applicazione-eccezioni-applicazione.
È inutile sottolineare che molte sono state le perplessità espresse dagli esperti sulla cosiddetta “didattica breve” che si avvale di un metodo per alcuni inadatto allo studio di una lingua conclusa come appunto il latino, che mai verrà “parlata” dagli studenti.
Tra le critiche mosse a questo modello didattico, due a mio parere meritano particolare interesse da parte di un docente di latino e cioè:
  • Non si può fare a meno della regola grammaticale in una lingua che appunto è conclusa o come generalmente o come generalmente si dice, utilizzando un’espressione che personalmente detesto è “morta”
  • Il latino che noi traduciamo o proponiamo agli studenti non è quello parlato, sul quale peraltro non sappiamo quasi nulla, ma una variante personale dell’autore in questione, una precisa testimonianza all’interno di un sistema linguistico, che prima di tutto esprimeva i valori morali, politici e civili di una civiltà, tesa a lasciare di sé un’idea precisa e fortemente idealizzata ai posteri.
Lo studio della morfologia quindi non è un “di più” da cui si può prescindere, ma acquisisce di per sé un valore pedagogico da non sottovalutare. Il problema non è quindi “grammatica sì – grammatica no”, ma far capire agli studenti l’utilità dello studio mnemonico, senza peraltro caricarlo di un valore assoluto o addirittura “ontologico”, come facevano i nostri predecessori in un tempo non troppo lontano.
Comunque sia un moderno docente deve aver sempre ben presente, secondo me, anche i vantaggi che l’introduzione nella didattica di tale metodo comporta e soprattutto:
1)      si tratta di un procedimento diretto che, se vogliamo,”toglie la polvere dalla storia” è capace di mettere in contatto direttamente lo studente con la materia.
2)      tale  contatto, se ben sfruttato, genera nel discente un “transfert attivo”[2], che lo mette da subito nella condizione di considerarsi protagonista dell’iter didattico.
Ma vediamo più da vicino quali sono le novità positive che questo modello di apprendimento comporta.
La didattica breve, accusata dai critici “tout court” di semplicismo, si basa sugli elementi costitutivi di uno studio o di una disciplina e su questi adatta un procedimento formativo.
In questo metodo formale-comparativo, nell’esercizio di traduzione, l’attenzione si concentra sul verbo, chiamato “valenza”, come se ci trovassimo davanti ad una reazione chimica. Esso, appunto lega a sé, mediante le regole morfologiche sintattiche gli “attanti”, cioè gli elementi direttamente coinvolti dal transitare dell’azione (soggetto, complemento oggetto, complemento d’agente e di causa efficiente) e i “circostanti” cioè tutti i complementi che possono comparire nel periodo. Secondo i legami che instaura con gli altri elementi sintattici il verbo è definito a-valente quando è impersonale, monovalente quando è intransitivo, bivalente, quando può essere usato sia transitivamente che intransitivamente.
Tutto l’apparato morfosintattico di una lingua, quindi anche del latino, viene fatto ruotare intorno a questo schema, che poi non è così semplice o semplicistico come sembra.

Il metodo selettivo

Homines dum docent discunt
Seneca, Lettere a Lucilio

Come dice Marino Faggella in un suo interessante studio sulla didattica del latino, il metodo migliore che l’insegnante moderno può utilizzare per avvicinare gli studenti all’amore e quindi allo studio del latino è quello eclettico, che tenga conto di tutta l’esperienza fatta dai docenti in materia, se possibile dall’era della Riforma Gentile fino ai nostri giorni.
È quindi indispensabile, fin dalle prime battute, far sentire lo studente “protagonista attivo” del progetto educativo che lo riguarda e lo coinvolge. Come? Innanzitutto procurandosi che si impadronisca del lessico, che utilizzi tutti i mezzi a sua disposizione, non solo la nuda memoria, ma anche liste, rubriche, schede, per acquisire una competenza linguistica sempre più ampia. Questo è solo il primo passo per procedere oltre: solo se lo studente è in grado di riconoscere le parole all’interno di un testo si potrà sin dai primi mesi della prima liceo affrontare la lettura di testi significativi, magari con traduzione a fronte. Se questo approccio riesce, avremo evitato il rischio che lo studio grammaticale sembri fine a se stesso, anzi saranno gli stessi studenti a porre domande a sollecitare l’insegnante a proseguire nello studio della morfologia per ricevere una risposta alle curiosità e ai dubbi suscitati dalla proposta di un passo di cui si può interpretare, con le proprie forze, solo un venti per cento.
È fondamentale nella prima fase di studio dare molta importanza ad una corretta lettura[3]. Spesso noi insegnanti tralasciamo questo aspetto, presi dalle esigenze del programma e dalla fondata preoccupazione che per i nostri alunni sia più importante imparare la declinazione e la flessione del verbo, piuttosto che le regole della pronuncia. È umano che questo avvenga, ma è anche controproducente. Uno studente che si accorgerà che l’insegnante non dà peso alla lettura recepirà un messaggio sbagliato: che la lingua latina non ha dignità, rispetto alle lingue moderne, che leggere bene sottragga solo del tempo alla ricerca dei termini sul dizionario e al riconoscimento delle strutture sintattiche. Alcuni pensano che una corretta lettura e pronuncia del latino debbano in definitiva essere demandate al docente del triennio, in previsione di una scansione metrica, ma secondo me non c’è niente di più sbagliato.
[…]
Personalmente  amo gli spazi aperti e una divisione rigida mi mette non poca ansia. Confesso apertamente che spesso e volentieri ho fatto nel corso del corrente anno scolastico delle “incursioni” nei programmi futuri e non sono per niente pentita perché è proprio da quelle esperienze che ho tratto le migliori soddisfazioni.
Il punto di partenza dell’azione didattica, la finalità concreta dello studio del latino è quella di mettere lo studente in grado di tradurre, deve esserci quindi l’analisi del verbo, vera “cellula” dell’attività di traduzione, più importante di qualsiasi altro concetto. Per esempio, non c’è bisogno di appesantire con una pretesa eccessiva di memorizzazione da parte dello studente lo studio della sintassi, di cui alcune regole sono puramente intuitive e diventano ovvie, una volta introdotto opportunamente il discente nel sistema linguistico latino. […]

Conclusioni

E io rimango in forse, / che no e sì nel capo mi tenciona
Dante, Inferno VIII, 110-111

[…]
Dal mio punto di vista devo ammettere che ho perseguito unicamente due scopi durante l’attività di questo anno scolastico: 1) convincere gli studenti che senza una partecipazione attiva da parte loro non si imapra alcuna disciplina; 2) sviluppare in loro un forte senso critico, una capacità di giudizio necessario.
Molti sono i colleghi che non la pensano come me. È opinione diffusa che nelle prime due classi del liceo tutti gli sforzi dell’insegnante debbano essere tesi alla trasmissione di un metodo solido di studio, che consenta allo studente di affrontare il triennio, quando si aggiungeranno i contenuti.
Francamente la trovo una visione un po’ restrittiva, in un certo senso è come se si dicesse che il collega del biennio è un ottimo gregario che tira la volata ai numeri uno e mi scuso all’istante della metafora sportiva.
[…]
Spesso in questo anno scolastico ho inserito nelle verifiche domande che non avevano risposta negli appunti o sul libro di testo, ma a cui si poteva far fronte con il ragionamento o intuitivamente. Le prime volte solo alcuni si sono cimentati nella risposta, molti hanno scritto qualcosa che era stata detta a lezione e che speravano fosse inerente all’argomento, altri hanno “saltato” il quesito incriminato. Alla fine dell’anno però le percentuali si sono invertite e molti sono quelli che “osano” di testa loro. Buon segno. Non ha importanza, per ora, che “ci indovinino” o no, come diceva Bertold Brecht “l’intelligenza non è non commettere errori, ma scoprire subito il modo di trarne profitto”[4].

Silvia Alessi, Riflessioni sulla didattica del latino nei licei, in Schol(i)a - Rivista destinata ai docenti di letteratura Latina e Greca , N° 3 – Anno 11 – 2009, Roma, Pagine Edizioni, pp. 73-90.


[1] M. Faggella, Latina didaxis: aggiornamenti sulla didattica del latino nella scuola liceale, percorso modulare tenuto nell’Università della Basilicata.
[2] M. Faggella, in op. cit., Il transfert, pp. 18-19.
[3] M. Faggella, in op. cit., Lo studente protagonista attivo, pp. 24-25.
[4] Bertold Brecht, La linea di condotta (1930), a cura di Emilio Castellani, Einaudi 1974.

La lex Iulia de adulteriis coercendis (di Eva Cantarella)



Nel 18 a.C. viene approvata, su proposta di Augusto, la lex Iulia de adulteriis coercendis: una legge fondamentale, la cui importanza nella storia del diritto romano è assai maggiore di quella che il nome lascia supporre.
La legge, infatti, non si limitava a sottoporre a nuova regolamentazione la violazione della fede coniugale. Inserita nel quadro generale della politica demografica e moralizzatrice di Augusto[1] essa stabiliva, in linea assai più generale, che fosse punito come crimen (vale a dire come delitto pubblico, perseguibile su iniziativa di qualunque cittadino) qualsiasi rapporto sessuale al di fuori del matrimonio e del concubinato, eccezion fatta per quelli con le prostitute e con donne a queste equiparate, o in ragione del mestiere esercitato, o perché già condannate, in precedenza, per condotta immorale.[2]


Il termine adulterio, insomma, è usato da Augusto in senso lato, e comprende anche lostuprum[3]. La sferza della morale sessuale, sostanzialmente, viene sottratta, con la sua legge, alla competenza della giurisdizione familiare, e diventa «affare di Stato»: come dicevamo, un momento fondamentale sia nella storia del diritto romano sia nella storia dei rapporti fra etica e diritto. Ma veniamo, ciò premesso, al problema che ci interessa più da vicino.
La lex Iulia, dunque, punisce come crimine anche lo stupro: ma lo stupro, come sappiamo, si commette, oltre che con le vergini e le vedove, anche cum puero[4]: dobbiamo dedurre che essa sottopose a nuova regolamentazione anche i rapporti omosessuali?
Alcuni autori, come Christius e Mommsen, sono dell’opinione che questo sia da escludere[5]. Altri, invece, come Gonfroy, Csillag, Richlin, e Dalla, ritengono che la legge si proponesse di regolare l’intero campo della sessualità, ivi compresa l’omosessualità maschile[6]. I primi osservano che l’omosessualità non rientra nel campo degli intenti legislativi di Augusto, il cui obiettivo era la restaurazione della morale familiare. I secondi citano a sostegno della loro ipotesi la testimonianza di alcune fonti, che pertanto esamineremo.
Accanto al passo di Modestino (più volte citato) che nelle Regulae scrive che lo stupro si commette anche cum puero, i passi che sembrano includere lo stupro omosessuale nel campo d’intervento della lex Iulia sono due. Il primo è un passo delle Pauli receptae Sententiae, secondo il quale chi violenta un maschio libero è punito con la morte, e colui che ha subìto volontariamente uno stupro omosessuale è punito con la confisca di metà del patrimonio, ed è privato della capacità di disporre per testamento di una parte maggiore[7]. Il secondo è un passo delle Istituzioni di Giustiniano, ove leggiamo che la lex Iulia non si limitava a punire coloro che mettevano in pericolo gli altrui matrimoni, ma anche «eos qui cum masculo infandam libidinem exercere audeant», vale a dire coloro che avessero osato sfogare con un uomo la loro vergognosa libidine[8].

  

Ma, a ben vedere, si tratta di due testimonianze assai poco attendibili.
Le Pauli receptae Sententiae, per cominciare, non sono autentiche: esse sono state ricostruite dai moderni sulla base di passi attribuiti a Paolo in opere postclassiche[9]. E, a ben vedere, riconducono alla lex Iulia de adulteriis disposizioni che questa legge non conteneva, come ad esempio la punizione dello stupro violento[10].
Una considerazione, questa, già di per sé sufficiente a ingenerare non pochi dubbi sulla loro attendibilità. Dubbi riconfermati dal fatto che, secondo le Istituzionidi Giustiniano, la pena prevista dalla lex Iulia per l’omosessualità non sarebbe stata una pena pecuniaria, come affermano le Pauli Sententiae, bensì la morte.
Oltre a contraddirsi l’un con l’altro quando parlano delle pene, inoltre, le Sententiae e le Istituzioni si contraddicono anche laddove alludono ai comportamenti omosessuali che la lex Iulia avrebbe punito: le Sententiae, infatti, parlano di una pena a carico dei soli omosessuali passivi; le Istituzioni, invece, anche di quelli attivi. E per finire va rilevato che, secondo le Istituzioni, questa pena sarebbe stata prevista, dalla lex Iulia, a carico sia degli omosessuali sia degli adulteri: il che è assolutamente falso. La pena prevista dalla lex Iulia per l’adulterio, infatti, non fu la morte, ma la relegatio in insulam, accompagnata da una sanzione patrimoniale[11]. La regola stabilita dal secondocaput della legge, che concedeva l’impunità al marito e al padre dell’adultera qualora uccidessero il complice di costei (e, solo nel caso del padre, qualora uccidesse anche la figlia) era la previsione di un’impunità speciale, concessa esclusivamente al padre e al marito, e subordinata al verificarsi di una serie di circostanze (quali la sorpresa degli adulteri in flagranza), specificamente e tassativamente elencate dalla legge[12]. Ma la pena per l’adulterio, in linea generale, non era la morte.


Come risolvere il problema, che conclusioni trarre da tutto questo? Evidentemente, considerando che né le Sententiae di Paolo né le Istituzioni di Giustiniano riportano le regole della lex Iulia: esse riportano, in realtà, le regole in vigore in un’età successiva, quella postclassica e giustinianea: le regole, insomma, che vennero stabilite nei secoli durante i quali, come vedremo, la repressione dell’omosessualità venne progressivamente inasprita ed estesa, sino a coprire, effettivamente, ogni e qualunque manifestazione di omosessualità, senza distinzione di ruoli.
A fare pensare che la lex Iulia abbia sottoposto a regolamentazione l’omosessualità, dunque, non rimane che un unico testo: un passo di Papiniano, nel quale leggiamo che colui che ha prestato la sua casa perché vi si commetta un adulterio o uno stupro (ivi compreso quello omosessuale) viene punito come adultero[13].


Ma trattasi a sua volta, a ben vedere, di un passo assai sospetto. Lo stupro omosessuale, infatti, viene definito – abbastanza singolarmente – stuprum cum masculo. Un’espressione estranea alle fonti classiche che invece parlano sempre di stuprum cum puero. Il passo, dunque, fu evidentemente rimaneggiato in età postclassica, quando la legislazione imperiale tentò di ampliare il campo dei rapporti omosessuali vietati, e la parola «ragazzo» venne pertanto sostituita con «uomo»[14]. E anche qualora si volesse escludere l’ipotesi del rimaneggiamento, resterebbe aperta, comunque, la possibilità di pensare – come fa Mommsen – che Papiniano faccia riferimento all’unico caso nel quale, del tutto eccezionalmente, la legislazione augustea avrebbe preso in considerazione questo campo della sessualità[15]. Senza dire, infine, che a confermare in modo inequivocabile che la lex Iulia si occupò soltanto del comportamento eterosessuale interviene una serie di prove positive, rappresentata dai passi dei numerosi autori che, in età successiva a quelli in cui lalex Iulia fu approvata, riconducono la punizione dell’omosessualità alla sola lex Scatinia.
Svetonio, come sappiamo, dice che Domiziano condannò alcune persone in base alle disposizioni di questa legge[16]: se la lex Iulia le avesse sostituite, come avrebbe potuto farlo?


Nella seconda Satira di Giovenale inoltre (come pure abbiamo già avuto modo di vedere) Laronia osserva che se è vero che le donne che commettono adulterio non sono più punite, perché la lex Iulia è stata dimenticata, è anche vero che neppure i molles sono puniti, perché altrettanto dimenticata è stata la lex Scatinia[17].
Evidentemente, dunque, le due leggi concorrevano, l’una accanto all’altra, e senza interferire l’una con l’altra, a regolare i due diversi settori della sessualità.
Non è tutto: nei primi due decenni del terzo secolo, Tertulliano allude alla lex Scatinia come a una legge tuttora vigente[18]. E nel quarto secolo Ausonio conferma l’esattezza di questo riferimento[19].
Sul finire dello stesso secolo, Prudenzio si chiede perché mai egli dovrebbe onorare Giove:

Qui si citetur legibus vestris reus,
laqueis minacis implicatus Iuliae
luat severam victus et Scatiniam[20].


Se Giove dovesse essere giudicato secondo le leggi romane – egli dice – oltre ad essere preso nei lacci della lex Iulia, sarebbe condannato e punito severamente in base alla lex Scatinia. Giove infatti, ben noto per le sue avventure extraconiugali, non disdegnava gli amori omosessuali, come dimostra la sua celebre storia con Ganimede: per questi amori, pertanto, avrebbe dovuto essere condannato in base alla lex Scatinia.
Ce n’è quanto basta per concludere, senza troppe esitazioni, che Augusto non si interessò minimamente del problema, e che la legislazione repubblicana rimase inalterata fino al momento in cui, a partire dal quarto secolo, gli imperatori decisero di intraprendere una nuova politica in materia: una politica repressiva, sempre più severa, volta in un primo momento a tentare di frenare il dilagare dell’omosessualità fra adulti, giungendo a stabilire la pena di morte per la passività, e successivamente a estendere il campo dei comportamenti vietati, punendo anche l’omosessualità attiva.

Augustus pontifex maximus

[1] Sulla quale vedi da ultimo E. Cantarella, L’ambiguo malanno, cit., p. 168 sgg.
[2] Cfr. Paul. Sent. 2,26,11; Dig. 25,7,1,2 (Ulp. 2 ad leg. Iul. et Pap.)
[3] Dig., 50,16,101 (Mod., 9 diff.) e Dig., 48,5,6,1. (Ulp.,de adult.).
[4] Dig., 48,5,35 (34) (Mod., 1 reg.)
[5] J. Christius, op. cit. pp. 14-15; T. Mommsen, Le droit penal, cit., II, p. 432.
[6] Cfr. F. Gonfroy, Un fait, cit., p. 308 sgg.; P. Csillag,The Augustan Laws on Family Relations, cit., p. 181; A. Richlin, The Garden of Priapus, cit., Appendix 2, p. 224 e D. Dalla, «Ubi Venus mutatur», cit., secondo il quale lalex Iulia, pur non abrogando la Scatinia, l’avrebbe tuttavia modificata.
[7] Paul. Sent. 2,26-12-13. Cfr. Mos. Et Rom. Legum Coll., V, II, 1-2.
[8] Inst., 4,18,4.
[9] Trattasi, più precisamente di opera redatta probabilmente nell’età di Diocleziano, alla quale, nel 327-328, Costantino riconobbe valore ufficiale (cfr. Cod. Theod., 1,4,2), e che fu rimaneggiata fino alla metà del V secolo. Cfr. J. Gaudemet, La formation du droit seculier et de droit de l’Eglise aux IV° et V° siècles, Paris, 1978, p. 95.
[10] Sulla repressione dello stupro violento, oltre a quanto già detto in precedenza nel testo, vedi diffusamente J. Coroï, La violence en droit criminel romain, cit. e alcune considerazioni di F. Gonfroy, Un fait, cit., p. 311 sgg.
[11] Cfr. E. Cantarella, L’ambiguo malanno, cit, p. 168 sgg., con bibliografia.
[12] Crf. E. Cantarella, Adulterio, omicidio legittimo e causa d’onore, cit., p. 163 sgg.
[13] Dig., 48,5,9 (Pap., 2 de adult.)
[14] Cfr. in questo senso C. Ferrini, Esposizione storica, cit.,p. 367. Secondo Dalla invece, l’espressione sarebbe stata coniata dalla lex Iulia (cfr. «Ubi Venus Mutatur», cit., pp. 106-107).
[15] T. Mommsen, Le droit penal, cit., II, p. 427, n. 4.
[16] Svet., Dom., 8,3.
[17] Juven., 2,36-48.
[18] Tertull., de monog., 12.
[19] Aus., Epigr., 91.
[20] Prud., Peristeph., 10,204.

Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, BUR 1995, pp. 182-186.


Il paradosso del formatore egocentrico / Narrazione delle pratiche didattiche


Applicazione didattica:
1) scegliere un linguaggio che abbia significato per chi ascolta
2) usare il linguaggio per una molteplicità di funzioni
3) usare il linguaggio per molteplici situazioni = adattarlo al quadro di riferimento dell'ascoltatore.
Il rapporto è sempre socializzato e comunicativo (Vygotskij vs. Piaget). L’ascoltatore è coinvolto totalmente come attore sociale quando l’autoreferenzialità apparente del formatore ha un senso come contro-esempio: è utile creare una situazione destabilizzante, almeno sul piano linguistico, fermo restando il punto di ancoraggio del discorso specifico. Si tratta in questo caso di un modello di apprendimento per influenzamento.

Sandro df

Amori immaginari: le donne degli elegiaci romani non sono mai esistite


L’elegia erotica romana è una delle forme d’arte più sofisticate di tutta la storia delle letterature; ed è anche una delle forme d’arte la cui natura è stata maggiormente misconosciuta. Due o tre decenni prima dell’inizio della nostra era, alcuni giovani poeti romani, Properzio, Tibullo e, nella generazione successiva, Ovidio, si misero a cantare degli episodi amorosi in prima persona, sotto il loro vero nome, riferendo i vari episodi a una sola ed unica eroina, designata con un nome mitologico; la mente dei lettori si popolò così di coppie immaginarie: Properzio e Cinzia, Tibullo e Delia, Ovidio e Corinna. […]


Benché adorata da nobili poeti (l’elegia è una poesia aristocratica), questa eroina non è una nobile dama, a differenza della sua posterità letteraria; che cosa dunque si suppone che sia? Una irregolare, una donna da non sposare: i nostri poeti non precisano e vedremo che non hanno bisogno di dire altro perché il genere elegiaco sia quello che è. Questi spasimanti sono pronti a tutto per la loro bella, tranne che a sposarla. Sarebbe pura villania, se fosse vero; ma, trattandosi di letteratura, cominciamo ad intravedere che cosa fu l’elegia romana: una poesia che invoca il reale solo per insinuare una impercettibile incrinatura tra il reale e se stessa; una finzione che, invece di essere coerente con se stessa e fare concorrenza allo stato civile, si smentisce da sola…
Il poeta spasimante, dal canto suo, dice “io” e parla di se stesso sotto il suo vero nome, Properzio o Tibullo: ci sembrerà dunque di ritrovarne i tratti nella sua posterità petrarchista e romantica e non avremo dubbi sul fatto che egli esprima la sua passione, che ci confidi le sue sofferenze e che percorra per noi tutti la strada maestra del cuore umano… Sennonché  Properzio dice “io”, come hanno fatto poi tanti autori polizieschi che hanno preso come pseudonimo il nome del loro detective o hanno dato a quest’ultimo il loro vero nome; questo ego è stato dunque inteso come la confessione di un poeta romantico. È stata presa in considerazione la sua anima, studiata la sua psicologia; si è riconosciuto in lui un virtuoso della gelosia, un temperamento doloroso e fiero. […]
E sono stati scritti volumi e volumi sulla storia della loro vita sentimentale, sulla cronologia delle relazioni con le amanti ipotetiche cantate sotto i nomi di Delia e Cinzia, sulle date dei loro litigi e sulle difficoltà e contraddizioni di tale cronologia. Il candore filologico è arrivato a tal punto che raramente, ci si è accorti di come il divertimento preferito dei nostri elegiaci sia giocare venti volte sull’equivoco  fra Cinzia, nome dell’eroina, e Cynthia, che designa il libro in cui viene cantata e che potrebbe legittimamente avere per titolo il nome dell’amata; essi sono infatti autori più che amanti e sono i primi a compiacersi della loro finzione.

Paul Veyne, La poesia, l’amore, l’Occidente, trad. it. di L. Xella, Il Mulino

Conversazione con Renzo Paris su Moravia


Sandrino De Fazi Cosa sono i radical flop?
Renzo Paris chiedilo a Serino. Sarebbero quelli che a fine settimana a Roma fanno un convegno contro gli "orfani" di Alberto Moravia(sic)
Sandrino De Fazi Ancora adesso?! non mi dire
Renzo Paris Lagioia li chiama "prefiche" e come e' noto Moravia e' morto nel 1990. Ma non ci saranno zombi tra di noi?
Sandrino De Fazi uh, vogliono resuscitare il "clan Moravia", che baggianate! ah ah ah


Renzo Paris A meno che non vogliono dire, basta con la nostalgia per i veri romanzieri, con quel sentimento non si va da nessuna parte..ma allora e' stato piu propositivo Aurelio Picca sul "Corriere" di sabato scorso, ma quello aveva nostalgia di Foscolo e Manzoni altroche.
Sandrino De Fazi Poi per Moravia Manzoni era un grande scrittore ma un mediocre romanziere, almeno così disse a Elkann
Renzo Paris Sandro io capisco tutto, gli slogans, la voglia di farsi pubblicita, ma prendersela con uno dei pochissimi romanzieri italiani del Novecento e con quei rarissimi amici ancora vivi, mi sembra troppo. Mi ricorda un'altra accolita di gente, vivo Moravia, che si riun´per dire "abbasso Moravia". ma che senso ha, leggendo l'Unita non credevo ai miei occhi.
Sandrino De Fazi Conosciamo quelle storie, caro Renzo... Mera invidia, ai suoi tempi. E dove pensano di arrivare, oggi? Infatti è pazzesco.
Renzo Paris Ma poi viaggiano tutti con grandi editori in mercedes, mica con le utilitarie e se vendono trecento copie con chi se la prendono? Ah i maestri che non hanno, una generazione senza maestri italiani...
Sandrino De Fazi Appunto.


(Facebook, 28 aprile 2011)

PREMIO DI POESIA LERICIPEA a Marcia Theóphilo




PREMIO DI POESIA LERICIPEA
Anno Cinquantottesimo
Con il patrocinio del Presidente della Repubblica

Il Cinquantottesimo Premio di Poesia LericiPea si svolgerà a Lerici il 25 settembre 2011 a Villa Marigola (Centro Studi della Cassa di Risparmio della Spezia). I vincitori delle varie sezioni sono: Premio LericiPea per l’Opera Poetica: la poetessa brasiliana Marcia Theophilo.

Biografia: 
Marcia Theophilo, la vincitrice del Premio all’Opera Poetica, sezione che ogni anno premia un grande rappresentante della Poesia mondiale, (lo scorso anno Ismail Kadarè, gli anni passati Francois Cheng, Bella Akmadulina, Jasper Svembro, Seamus Heaney, Ives Bonnefoy, Adonis, Ferlinghetti, Juan Gelman, Mario Luzi, Edoardo Sanguineti, Attilio Bertolucci e Giovanni Giudici) nasce a Fortalesa,capitale dello Stato di Cearà, nel nord-est del Brasile.Studia Antropologia a Rio de Janeiro,San Paulo e Roma, dove consegue il dottorato. Nel 1971 viene in Italia come esiliata politica sfuggendo al regime militare che aveva imposto severe leggi sulla censura. Qui in Italia si impegna a mantenere relazioni culturali tra Italia e Brasile rappresentando l’Unione Brasiliana di Scrittori. Nel corso degli anni ha organizzato incontri di poesia,ha tradotto in portoghese poeti italiani e in italiano poeti brasiliani. 
Ha scritto saggi: Ritorno di un poeta assassinato, omaggio a Garcia Lorca (ed. Nuovi sentieri,Roma 1976), Il massacro degli Indios nel Brasile d’oggi (Euno,Enna 1977); 
pièces teatrali: Arapuca (Ed.I manoscritti del Ciclope, Roma 1979), Dica a quelli che è da parte di Dulce, prefato da Dacia Maraini; 
testi didattici: Gli Indios del Brasile (Nuove edizioni romane, Roma 1978); racconti. 
Ma la ricca opera poetica segna gran parte della sua carriera. 
Ricordiamo: Catuete Curupira (ed. La Ninea 1983, Premio Minerva); Il Fiume, l’uccello, le nuvole (Rossi&Spera,1987); Io canto l’Amazzonia (Ed.dell’Elefante,1992, Premio Città di Roma); I bambini Giaguaro (Ed.De Luca,1995,Premio Fregene) prefato da Mario Luzi; Kupahùba (Ed Tallone, 2000) prefato da Mario Luzi. La sua poetica è tutta incentrata sulla natura, sui miti e le leggende della foresta Amazzonica, sui popoli indigeni e sulla denuncia dello scempio che ai suoi danni si compie e all’impegno di salvaguardare il patrimonio naturale dalle aggressioni della civilizzazione. Nel 1997 le viene assegnato il Premio Nuove Scrittrici, premio alla carriera. Nel 1999 il Premio Calliope per la poesia inedita ed è candidata al Premio Nobel. Vive tra Roma e il Brasile. La Giuria del Premio, formata da: MassimoBacigalupo, Giuseppe Conte, Marina Giaveri, Stefano Verdino, Valentino Zeichen con tale riconoscimento sottolinea come “la frontalità di una poesia di accesi colori e suoni, l’impasto di dimensione cosmica e primigenia con l’allarme di un oggi post-umano siano i punti qualificanti della ricca esperienza di poesia in portoghese e italiano di Marcia Theóphilo.”

A questo suo canto in difesa della voce della foresta che fa respirare il mondo e che da tempo costituisce una realtà di poesia unica e ben meritevole di attenzione, viene riconosciuto tale importante premio di poesia proprio nell’anno dichiarato dall’ONU Anno Internazionale delle Foreste, in continuum con il 2010, a sua volta dedicato alla biodiversità. E ciò al fine di stimolare sempre più le coscienze di cittadini e dei governi sull’importanza della salvaguardia dell'ambiente a livello planetario, per garantire il futuro nostro e della Terra e porre un freno all’inesorabile deforestazione del pianeta.

* * *

Prefazione di Dario Bellezza 
alle poesie di Márcia Theóphilo 
nell'antologia Poesie di amore. In segreto e in passione (con il titolo Come sono le tue carezze
ed. G.T.E. Newton, a cura di Francesca Pansa

«L'ispirazione mai mi stanca
quando si agita una canzone
si rinnovano le acque del fiume
scoppiano mille tempeste
gli,urli si moltiplicano»

Questi limpidi e intensi versi aprono una strada per parlare della poesia di Márcia Theóphilo; poesia che si dibatte tra titanismo degli eventi e difficoltà dell'esistere. Tutto questo è maggiormente amplificato in un paese magico e tragico come il Brasile. Come prima costatazione c'e da rilevare il rapporto cosmoganico esistenziale che Márcia Theóphilo ha instaurato con la vita, la storia, il destino dell'uomo, disperso su questo minuscolo punto dell'universo chiamato: terra.

"Io sono vivo e voglio che lo sappiano
l'umido della pioggia, il calore e la frescura del vento».

Come a dire che l'uomo e la sua prosopopea di grande artefice di storia e di destino, altro non è che una molecola, un insignificante segno del nulla, appena un'orma e la poesia è una delle poche strade ancora percorribili per aiutare l'uomo e dunque la terra a non perdersi definitivamente. Márcia Theóphilo possiede una strepitosa capacità di organizzare la pagina. Le parole possono (passare) con enorme semplicità ed eleganza dal privato al pubblico, dallo storico al quotidiano, dal mitico alla microstoria, dal sogno al reale.

«Albero io conosco la tua vita,
i tuoi fruscii, la voce dei tuoi rami,
e tu cerchi il mio sguardo per darmi compagnia»

La poesia della Theóphilo ci viene dal mondo mitico dell'Amazzonia, da un altrove paradisiaco, ma è ingabbiata in ritmi europei, oserei dire mediterranei, insomma i suoi versi sono cantilenati con sbalzi improvvisi di sangue; possiedono una forza selvaggia, sono un fiume in piena da cui emerge peró sempre la sincerità sofferta dell'autrice.

«E il nostro sorriso si smorza
come archiviate carte
ingiallite mature
disposte a cadere
nelle braccia perché io baci
la tua bocca».

"Io canto l'Amazzonia" non dà ragione a Saint Beuve quando afferma che il valore di un’ opera è inscindibile dalla biografia dell'autore ma neppure a Benedetto Croce il quale sostiene che l'unica biografia di un autore è l'opera, qui le due visioni che sembrano distanti, se non diametralmente opposte, sono mischiate, merito forse del fatto che l'autrice è una esule. Chiunque viva, non dimentichiamolo, anche per scelta come la Márcia Theóphilo, lontano dalle sue radici e opera con le parole sente lo strazio della lontananza, la malinconia dell'abbandono. E inoltre, il poeta, alle soglie del duemila, non è di per se stesso un esiliato? Un non inserito? Un non accettato? La società odierna è occupata ad arraffare beni materiali, è impegnata ad abbellire la facciata, dell'interno dei beni materiali poco gliene cala e il poeta va per la sua strada una strada solitaria e perigliosa. La poesia di Márcia Theóphilo così suadente, così cullante, ma anche così piena di censure di ritmi che sembrano mimare i ritmi delle stagioni è lontana dalle scuole, fuori dalla 'combriccola' perché la Theóphilo a tutti è vicina, per allontanarsene subito e per covare come madre terra quelle parole virgulto che da lei sbocceranno. Se dovessi trovare dei maestri farei il nome di Rafael Alberti. Però l'allieva lo supera soprattutto, nella capacità di rendere quotidiano il mito e mitico il quotidiano. Ma citerei anche Vinicius de Moraes e Antonio Machado, il Fernando Pessoa del Canto del marinaio e il García Lorca dei 'Canti gitani'. "Io canto l'Amazzonia" è il documento di una donna che soffre, ama, lotta. Un documento a volte doloroso e cupo a volte felice ed esilarante. I versi sono sempre calcolati mimano il mito dell'Amazzonia gettato nella sgangherata metropoli romana. Se la poesia, come sostengono in molti, è nostalgia, la poesia di Márcia Theóphilo traduce le intermittenze del cuore della terra. Il suo è un viaggio nei nomi e nei numi, è il ritorno a un mondo incorrotto. La Theóphilo è una voce contro il tempo. La sua poesia è l'epifania di un cuore sconfinato, inedito, inusuale oggi che la natura è piuttosto bistrattata. La poesia è il veicolo per trasportare il mondo fuori dall'angoscia e dall'incertezza proprio perché è essa stessa incertezza, ambiguità.

«Spalancando il paradiso, accendono la pazzia
i nostri sensi scatenati. Andiamo
fra luci accecanti, fra densi colori
in estasi chiamando gli dèi».

E, dunque, via a questa celebrazione indio-europea. Prepariamoci a ritornare al mito, a ridare dignità e autorità alle parole.

Dario Bellezza