mercoledì 5 ottobre 2011

La speranza ci rimanda al futuro



Una piccola dose di saggezza o di follia, che è lo stesso, per chi non avesse altro e sa intendere. In Orazio (Carmina, I, 11) come in Matteo (6, 31: Nolite ergo solliciti esse dicentes: “Quid manducabimus?”, aut: “Quid bibemus?”, aut: “Quo operiemur?”) la disperazione è un modo di defuturizzare il presente, depotenziarlo energeticamente dai pericoli della speranza come modo per viverlo, attraversare tutto il dolore preservandosi dall’ansia per ciò che potrebbe accadere e che di fatto non è (spatio brevi / spem longam reseces). Se non aveste avuto da combattere di qua, ci sarebbe stata in ogni caso la necessità di farlo di là! E guardate all’amicizia non come un ripiego ma come scelta, come destino:
«La speranza ci rimanda al futuro: è in esso che noi speriamo, invece di conciliarci col presente; di conseguenza, siamo infelici. Da circa 14 mesi, senza neanche un minuto di pausa, soffro di mal di testa, e per tutto questo tempo ho avuto quasi sempre il desiderio di gettarmi a terra e urlare (bella situazione per un filosofo!) di furore, di disperazione, perché non si vedeva alcun miglioramento. Alla fine ho abbandonato la speranza, e da allora sono assai più felice. E poi penso anche: la vita, comunque sia, è – cattiva; quindi non è tanto importante che sia in un modo o nell’altro. Ma quel che mi rasserena ancor di più della mia stessa mancanza di speranza è – come Lei, caro amico, può bene immaginarsi – la prospettiva di trovarmi con Lei.» (Paul Rée da Stibbe a Nietzsche a Naumburg, 19 ottobre 1879)