sabato 29 dicembre 2012

Corinna






Ma che giornate di sole ci dedica questo dicembre
alla sua fine, che già tiepida traffica qua!
Estasi, nella tua stasi procedi nei cenni del sole,
deviano ancora però ibridi i baci suoi.

*

Violenti i baci di Corinna al vento
(nec me deliciae dedecuere meae)
scivolando in pozzanghere
chi per lei trascurai
ripensando elegiaco
chiesi al vento di Tivoli.

venerdì 28 dicembre 2012

UN OCCHIO ESPERTO DEL FATTO RELIGIOSO





L’appartenere ad una venerabile gerarchia come quella del clero cattolico perfeziona senza dubbio il senso della gerarchia umana, e molto meglio di quanto lo faccia un’esistenza borghese. Però, chiarito questo pensiero, vado un passo più avanti, sforzandomi di serbarmi sempre logico. Abbiamo parlato di un “senso”, quindi di una componente della sensualità. Ma la forma cattolica della venerazione è quella che, per avviarci al soprasensibile, precipuamente conta ed agisce sulla sensualità, favorendola per le vie più impensate e costringendola più di ogni altra ad approfondirsi nei suoi segreti. Un orecchio avvezzo alla musica più sublime, ad armonie create per dare il presagio di cori celesti, non dovrebbe essere abbastanza sensibile per ascoltare la nobiltà profonda di una voce umana? Un occhio esperto del fasto religioso, degli aspetti e dei colori che simboleggiano la magnificenza di ambienti celesti, non dovrebbe essere particolarmente aperto alla grazia misteriosamente privilegiata di una forma perfetta? Un olfatto che, abituato ai profumi dei templi ed estasiato dall’incenso, abbia per tempo assorbito il grato aroma della santità, non dovrebbe poter avvertire l’emanazione corporea, se anche immateriale, di una creatura predestinata alla fortuna? Colui che è consacrato per celebrare il mistero della carne e del sangue di questa Chiesa, non dovrebbe poter anche distinguere, grazie ad un più raffinato senso del tatto, fra una sostanza umana scadente o superiore? Con queste parole ricercate mi lusingo di avere dato espressione quanto possibile esauriente ai miei pensieri.

Thomas Mann, Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, trad. it. di Lavinia Mazzucchetti, Libro secondo, Capitolo secondo   

sabato 15 dicembre 2012

Morante di nessuno




Nessun carteggio vero e proprio, inteso cioè nel senso binario. Molte lettere, anche di mittenti illustri, non hanno avuto risposta pur essendo assunte come carteggio sia pure unilaterale o in primo luogo, pregiudizialmente, espunte da questa raccolta composta da stratificazioni significative (significanti) complesse. Non si capisce il  criterio di non riportare «senza eccezioni tutta quella corrispondenza che non avesse significanza in sé, ma solo in quanto testimonianza di presenza, in quanto attestante che “io c’ero“ o “c’ero anch’io”» (p. XIX): non ne sapremo forse mai di più, perché il criterio è quantitativo e contraddittorio quando vuol essere qualitativo, al punto che sono riportate nel quarto capitolo lettere di semplici lettori ignoti, non solo per l’esclusione di tutta la corrispondenza degli amici più intimi come di chiunque avesse avuto con la scrittrice «una comunicazione altra che epistolare (o, quand’anche epistolare, non “storicamente” significativa» (ibidem). Una scelta cursoria da una parte si imponeva, ma esorbita alquanto, viceversa, anche quando Daniele Morante, con la collaborazione di Giuliana Zagra, per L’amata. Lettere di e a Elsa Morante (Einaudi 2012) ricorre direttamente ai mittenti/destinatari che avessero conservato documentazione utile al repertorio delle fonti epistolografiche, che filologicamente è il problema fondamentale di questo libro.

venerdì 14 dicembre 2012

I sospetti che degradano "anche chi li prova". Due testi a confronto





EM a Dario Bellezza – [minuta] di lettera ms, s.d. [’69?]
in L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, a cura di Daniele Morante con la collaborazione di Giuliana Zagra, Einaudi 2012, pp. 538-539

Carissimo Dario,
Mi dispiace di averti offeso, ma preferisco, da parte mia, di averti dato occasione a scrivere questa lettera, la quale mi conferma, anzi ripete fin quasi nelle parole, quello che io ti avevo detto per telefono.
Certo, è possibilissimo che anche questa immagine negativa, che tu ti fai di me, mi appartenga, e che io possa, anzi deva, riconoscermi anche in essa. Tu sai difatti, come io so, che in ciascuno di noi abita una piccola moltitudine (spesso di convivenza difficile) e che da questa moltitudine, a seconda delle circostanze e delle persone, si suscita[?] e si proietta sugli altri una immagine diversa di noi stessi. Ma il fatto che tu, a differenza di quelli che mi sono amici, abbia scelto di me proprio questa immagine, dimostra che, se è vero che tu non mi sei simpatico, anch’io non ti sono simpatica. Anzi, credo (posso anche sbagliarmi) che in fondo la tua non simpatia per me abbia preceduto la mia, e magari l’abbia prodotta.
È anche vero che, se io possedessi una maggiore carità, potrei forse provare simpatia anche per quelli che non ne provano realmente per me. Ma almeno per ora, la mia carità è insufficiente a questo. Tutto quello che posso fare – e che faccio sempre in questi casi – è di evitare gli incontri con certi poeti, accontentandomi di leggere le loro poesie. Questa [xxx] è l’unica povera forma di carità [xxx xxx] (verso me stessa e verso di loro) di cui dispongo in casi simili.
Scusami; ma solo la simpatia a me può dare ancora qualche contentezza. E io cerco la contentezza, come la gente comune.
Naturalmente, se credessi che la mia compagnia può dare a te qualche contentezza, questo già mi basterebbe. Ma ho proprio l’impressione che non sia così. [xxx xxx xxx xxx xxx]. E per di più alcuni miei sospetti sono, per te, umilianti. Forse, si tratta di sospetti ingiusti. E in ogni modo ti assicuro che non ti voglio male. Anzi, il contrario.
E mi addolora che tu sia infelice. Ma purtroppo, non posso darti nessun vero aiuto. Senza simpatia, nessun aiuto è possibile.
Scusami, e cerca di non odiare. Né me, né nessuno.
Elsa

* * *
Elisa V. a Tommaso
in Angelo di Dario Bellezza, Garzanti 1979, pp. 69-70

Caro[1] Tommaso,
mi dispiace di averti offeso, ma preferisco, finalmente[2], di averti dato occasione a scrivere questa tua lettera ricevuta oggi[3], la quale serve a confermarmi[4] (anzi, ripete fin quasi nelle parole)[5], quello che io stessa avevo voluto spiegarti tante volte[6].
Certo, è possibilissimo, che anche questa immagine negativa, che tu ti fai di me, e oggi descrivi[7], mi appartenga, e che io mi riconosca “anche“ in essa.[8] Si sa[9] che in ciascuno di noi abita una piccola moltitudine (spesso di difficile convivenza[10]) e che da questa moltitudine si suscita e si proietta sugli altri, a seconda delle circostanze e delle persone, un’ immagine diversa di noi stessi. Ma il fatto che tu, a differenza di quelli che mi sono amici, abbia scelto di me proprio “questa”[11] immagine, costante[12], dimostra che, se è vero che tu non mi sei simpatico, anch’io non ti sono simpatica. Anzi, io[13] credo[14] che in fondo la tua non simpatia per me abbia preceduto la mia, e magari l’abbia prodotta.
È anche vero che, se io possedessi una sufficiente[15] carità, potrei forse provare simpatia anche per quelli che non ne provano[16] per me, e fino al ricambio[17]. Ma almeno per ora, la mia carità è insufficiente[18]. Tutto quello che posso fare – e che faccio sempre in questi casi – è di evitare gli incontri con certi poeti, accontentandomi di leggere la loro poesia[19]. Questo è l’unico rimedio di cui dispongo[20]. Scusami; ma solo la simpatia a me può dare ancora qualche contentezza. E io cerco la contentezza, come la gente comune. Naturalmente, se credessi che la mia compagnia può dare a te qualche contentezza, questo già mi basterebbe. Ma ho la convinzione che non sia così[21]. E questa convinzione è mescolata di sospetti che sono per te umilianti[22]. Forse, si tratta di sospetti ingiusti, e degradano anche chi li prova[23]. Però in ogni modo ti assicuro che non ti voglio davvero male[24], anzi, il contrario[25]. E mi addolora saperti infelice[26]. Ma purtroppo non posso darti nessun vero aiuto. Senza simpatia, non c’è aiuto possibile[27].
Scusami ancora[28], e cerca di non odiare[29]: né me, né nessuno.
Elisa



[1] invece di “carissimo”.
[2] invece di “da parte mia”.
[3] “ricevuta oggi” è un’aggiunta.
[4] invece di “mi conferma”.
[5] “anzi, mi ripete fino quasi nelle parole” ora tra parentesi, e con l’aggiunta di “mi”.
[6] invece di “io ti avevo detto per telefono”.
[7] “e oggi descrivi” è un’aggiunta.
[8] invece di “e che io possa, anzi deva, riconoscermi anche in essa”.
[9] invece di “Tu sai difatti, come io so”.
[10] invece di “convivenza difficile”.
[11] con l’aggiunta delle virgolette.
[12] “costante” è un’aggiunta.
[13] “io” è un’aggiunta.
[14] “(posso anche sbagliarmi)” è stato omesso.
[15] invece di “maggiore”.
[16] “realmente” è stato omesso.
[17] “e fino al ricambio” è un’aggiunta.
[18] “a questo” è stato omessso.
[19] invece di “le loro poesie”.
[20] invece di “Questa [xxx] è l’unica povera forma di carità [xxx xxx] (verso me stessa e verso di loro) di cui dispongo in casi simili”.
[21] invece di “Ma ho proprio l’impressione che non sia così”.
[22] invece di “E per di più alcuni miei sospetti sono, per te, umilianti”.
[23] “e degradano anche chi li prova” è un’aggiunta.
[24] invece di “E in ogni modo ti assicuro che non ti voglio male”
[25] con “Anzi” iniziava un nuovo periodo.
[26] invece di “E mi addolora che tu sia infelice”, periodo col quale si andava a capo.
[27] invece di “nessun aiuto è possibile”.
[28] “ancora” è un’aggiunta.
[29] con “non odiare” si concludeva il periodo.

lunedì 10 dicembre 2012

Contenimento dell'angoscia




Jean-Auguste Ingres, Edipo e la sfinge




Bisogna fare in modo che l’angoscia (angustiae, Enge) non si sviluppi ma che il segnale iniziale in termini reali venga percepito come preparatorio, al fine di riproporre emotivamente e razionalmente il contenimento dell’angoscia.

L’angoscia reale è uno stato affettivo proprio dell’animale mammifero e ha origine nella separazione dal seno. L’eccitamento libidico frustraneo e la limitazione sessuale sono cause di angoscia nevrotica. La differenza tra angoscia reale e angoscia nevrotica può essere esclusivamente quantitativa, perciò la situazione angosciosa è in grado in determinate circostanze di slatentizzare la nevrosi di traslazione. Al posto della libido subentra l’angoscia. Freud chiarisce che l’emergere dell’angoscia nevrotica «spetta all’astinenza sessuale […] naturalmente solo quando la libido cui non viene concessa una scarica soddisfacente è relativamente intensa e non è stata per la maggior parte liquidata dalla sublimazione. Certo sono sempre i fattori quantitativi a decidere se l’esito sarà patologico o meno» (Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri 1978, p. 363).

Il contenuto rimosso determina la resistenza e il passaggio dalla frustrazione al sintomo deve essere ricostruito.

Come ha fatto la paura di fronte a un pericolo reale a produrre il sintomo?

Quale consapevolezza ulteriore deve essere stabilita affinché l’angoscia reale non sfoci nel sintomo?

Perché, pur avendo organizzato emotivamente e razionalmente la strategia di difesa all’insorgere del segnale di pericolo, persiste lo stato affettivo tormentoso?

Che cosa dal punto di vista libidico non ha funzionato normalmente per far fronte all’antitesi tra l’Io e la libido?

È chiaro che i due percorsi (oggettività del pericolo e predisposizione soggettiva al sintomo) vanno affrontati simultaneamente o, meglio, dialetticamente.  

sabato 1 dicembre 2012

Nobel per la letteratura 2012






Jean-Paul Sartre rifiutò il Nobel nel 1964 perché altrimenti avrebbe perso popolarità presso i giovani: «il premio non era mai stato attribuito a un comunista - è Simone de Beauvoir ad affermarlo. - Se Sartre lo fosse stato, avrebbe potuto accettarlo, poiché l’accademia svedese, con la sua decisione, avrebbe dato prova d’imparzialità; ma non lo era, e dandogli il premio, non significava affatto che si ammettevano le sue posizioni politiche, ma che le consideravano trascurabili» (A conti fatti, Einaudi 1973, p. 43). Spiega che lei stessa incoraggiava il filosofo in tal senso, mentre secondo la stampa Sartre aveva rinunciato al premio «perché Camus l’aveva avuto prima di lui; oppure perché io ne sarei stata invidiosa» (p. 44). Sorvolando il gossip e decenni di Nobel per la letteratura conferiti ora a ragione ora a torto, quest’anno è toccato al cinese Mo Yan, autore del quale non si è mai sentito parlare molto in Italia. Quasi per caso mi sono trovato tra le mani questo suo piccolo libro: Cambiamenti (nottetempo 2011, trad. it. di Patrizia Liberati), il più recente pubblicato in italiano, un ritratto autobiografico dell’artista da giovane. Da noi la civiltà cinese è conosciuta soprattutto dagli specialisti, per il resto si può tutt’al più arrivare alle vicende della rivoluzione culturale maoista, - che provocatoriamente Alberto Moravia (mai vincitore del Nobel, che andò invece a Gide ma non a Sandro Penna) consigliava al movimento studentesco, - oppure a Cara Cina di Goffredo Parise (che se per questo era tutt’altro che peggiore di Fo).
Diciamo subito che l’autore non è più giovanissimo, essendo nato nel 1956, questa circostanza anagrafica giustifica il ritratto ma senza il genio né il linguaggio di Joyce. Il protagonista è dapprima un bambino povero e infelice, in seguito sarà un adolescente disadattato come da manuale. Ha due aiutanti nel suo percorso di emancipazione: He Zhiwu, un anarchico ribelle che straccia i libri di testo e scappa, o si fa cacciare, dalla scuola, e Li Wenli, una simpatica figura di ragazza perdente. È interessante una certa critica che di tanto in tanto tra le righe si evince nei confronti del regime: «Gli elementi di destra che ci avevano mandato erano tutti intellettuali di alto livello» (p. 23, a proposito dei figli dei membri dell’Azienda agricola di Jiaohe). Provando poi a usare una categoria junghiana nel processo di individuazione che attraversa questo racconto, c’è qualcosa che non torna. Non crediamo alle autobiografie, esse sono per natura false, a meno che la propria esperienza non venga calata in una struttura narrativa complessa che sia di per sé luogo istituito dell’affabulazione. Appunto quella di Simone de Beauvoir, in quattro grossi volumi einaudiani che vanno dal 1958 al 1971 (mi riferisco agli anni delle pubblicazioni, ma come non includervi anche La cerimonia degli addii del 1982, dedicata al resoconto della morte di Sartre?) va oltre il genere.
Qual è allora l’arte di Mo Yan, che contribuisce al benessere dell’umanità al punto di motivare il prestigioso riconoscimento negato a tanti altri e ricusato da Sartre ma accettato da Camus? Da universitario il giovane io narrante nutre ambizioni letterarie: «Mi abbonai alle riviste Letteratura del popolo e Arte e letteratura dell’Esercito Popolare di liberazione e, a partire dal settembre del 1979, iniziai a studiare Creazione letteraria. Scrissi Mamma, un racconto breve, poi un’opera teatrale in sei atti intitolata Divorzio» (p. 62).  Tenta dunque un riscatto attraverso la letteratura. Ci riesce? Editorialmente non ancora: la rivista  Arte e letteratura gli restituisce Divorzio, lui brucia i suoi manoscritti nella caldaia e così via, attraverso pagine abbastanza confezionate e poco avvincenti. Ma come si fa a ignorare scrivendo i risultati di Joyce? Va bene il processo di liberazione, da “uomo senza qualità” alle “ambizioni sbagliate” moraviane, ma Joyce e Musil dove li ha messi l’accademia svedese?

Sandro De Fazi per l’Estroverso, dicembre 2012

Aldo Moro in alcune parole di Paolo VI (1978)



Preghiamo per l'onorevole Aldo Moro, a noi caro, sequestrato in vile agguato, con l'accorato appello affinché sia restituito ai suoi cari.
Angelus, 19 marzo 1978

A noi pare di ascoltare le ultime parole gridate a gran voce dal morente Crocifisso: «Eloi, Eloi, lama sabactani», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marc. 15, 34).
Messaggio radio-televisivo al termine della Via Crucis, 24 marzo 1978

Raccogliamo quanto ancora ci resta di umana energia e ci sovrabbonda di sovrumana certezza per fare a voi tutti eco beatissima all’annuncio che attraversa e rinnova la storia del mondo: Cristo è risorto!
Messaggio Urbi et orbi, 26 marzo 1978

Già circa venti giorni sono trascorsi da quando fu versato il sangue innocente di cinque Militi e l’on. Moro fu rapito, e tra questi giorni erano anche quelli pasquali, sacri alla morte e alla risurrezione del Signore.
Noi non abbiamo alcun particolare indizio sullo stato di fatto; ma Noi rivolgiamo tuttavia agli ignoti autori del terrificante disegno un appello vivo e pressante per scongiurarli di dare libertà al prigioniero . È già troppo alto il prezzo pagato col sangue e con la desolazione in cinque famiglie; e sono così disumane la sofferenza del rapito, l’angoscia silenziosa dei suoi cari, il trauma della coscienza pubblica!
Regina Coeli, 2 aprile 1978

Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l'onorevole Aldo Moro. Io non vi conosco, e non ho modo d'avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui, Uomo buono ed onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso senso sociale e di mancato servizio alla giustizia e alla pacifica convivenza civile. Io non ho alcun mandato nei suoi confronti, né sono legato da alcun interesse privato verso di lui. Ma lo amo come membro della grande famiglia umana, come amico di studi, e a titolo del tutto particolare, come fratello di fede e come figlio della Chiesa di Cristo.
Ed è in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi, che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità, e per causa, che io voglio sperare avere forza nella vostra coscienza, d'un vero progresso sociale, che non deve essere macchiato di sangue innocente, né tormentato da superfluo dolore. Già troppe vittime dobbiamo piangere e deprecare per la morte di persone impegnate nel compimento d'un proprio dovere. Tutti noi dobbiamo avere timore dell'odio che degenera in vendetta, o si piega a sentimenti di avvilita disperazione. E tutti dobbiamo temere Iddio vindice dei morti senza causa e senza colpa. Uomini delle Brigate Rosse, lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità. Io ne aspetto pregando, e pur sempre amandovi, la prova.
Dal Vaticano, 21 aprile 1978
Lettera alle Brigate Rosse

Di Aldo Moro? Nessuna altra notizia. Abbiamo trepidato ieri, alla scadenza dell'ora fissata dagli anonimi autocostituitisi giudici unilaterali e carnefici; e trepidiamo ancora, sempre sperando e pregando che sia risparmiata a Roma, all'Italia, al mondo, e specialmente alla famiglia, agli amici, la consumazione del criminale annunciato misfatto. Questa attesa Ci lascia ancora sperare.
Regina Coeli, 23 aprile 1978

Come certamente voi tutti sapete, ieri è stato compiuto, qui a Roma, un fatto tristissimo, un delitto orribile. È stato ucciso vilmente l'onorevole Aldo Moro. Era una persona di grande autorità, un uomo politico di molta importanza e di carattere buono e tranquillo. La sua uccisione premeditata, calcolata, compiuta di nascosto e senza pietà ha fatto inorridire la città, tutta l’Italia e ha commosso di sdegno e di pietà il mondo intero. Noi lo abbiamo conosciuto fino dagli anni della sua giovinezza, fino a quando era studente all’Università. Era uomo buono e savio, incapace di fare male ad alcuno; professore molto bravo e uomo di politica e di governo, persona di grande valore, padre di famiglia esemplare, e ciò che più conta era un uomo di ottimi sentimenti religiosi, sociali ed umani. Questo delitto ha scosso tutto il mondo delle persone oneste, tutta la società; è come una macchia di sangue, che disonora il nostro Paese; tutti ne parlano, tutti ne sono indignati; e anche voi, giovani e fanciulli riuniti in questa Basilica, provate orrore e dolore per questo avvenimento.
Udienza generale, 10 maggio 1978

E ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all'ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il «De profundis», il grido e il pianto dell'ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci!
E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui, Signore, ascoltaci!
Fa', o Dio, Padre di misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della morte, ancora intercede tra i defunti da questa esistenza temporale e noi tuttora viventi in questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non è vano il programma del nostro essere di redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita sarà eterna! Oh, che la nostra fede pareggi fin d'ora questa promessa realtà. Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell'infinito Iddio, noi li rivedremo!
E intanto, o Signore, fa' che, placato dalla virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia perdonare l'oltraggio ingiusto e mortale inflitto a questo uomo carissimo e a quelli che hanno subito la medesima sorte crudele; fa' che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l'eredità superstite della sua diritta coscienza, del suo esempio umano e cordiale, della sua dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta Nazione italiana!
*
Prima che termini il rito di suffragio, nel quale abbiamo pregato per la pace eterna di questo nostro fratello, noi leviamo le braccia a benedire quanti sono presenti in questo Tempio o, non avendo potuto trovar posto entro le sue mura, sono restati nella piazza, ed ancora tutti quelli che, pur lontani, sono a noi uniti spiritualmente: in particolare intendiamo abbracciare con questo nostro gesto paterno anche quanti portano nel cuore strazio e dolore per qualche loro congiunto, vittima di simile efferata violenza. Anche per queste vittime si estende la nostra afflitta preghiera. Su tutti invochiamo, apportatrice di serenità e di speranza, la confortatrice assistenza del Signore.
Preghiera per l’on. Aldo Moro, San Giovanni in Laterano, 13 maggio 1978

(Paulus Pp. VI)

venerdì 30 novembre 2012

Goethe è sempre eccezione





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Soltanto Goethe legge totalmente ottavianea l’opera di Ovidio, nessuno scarto anti-augusteo e anti-classico è in grado di scalfire la sua coincidentia oppositorum.
La terrificante vicenda di Tomi è una minuzia per Goethe. Irrilevante per la vita dello spirito, e anzi per “la vita della vita” che è lo spirito: «Ovidio resta classico anche nell’esilio: l’infelicità non la ricerca in sé, ma nella sua distanza dalla capitale del mondo» (1829, massima 1032, in Maximen und Reflexionen, Weimar 1907, p. 215).
Goethe fa eccezione, Goethe è l’eccezione, Goethe sta parlando di Roma e non di Ovidio, Goethe è attratto dalla Roma del 1788, in essa vede, vive, rivive in prima persona il dramma del “bando inesorabile”. Sensibile al tema dell’esilio, lo recupera nell’autenticità poetica, neutralizza la retorica nasoniana, reintegra le rovine rumene nei fasti romani della capitale, caput mundi, annulla la relegatio ottavianea. Tomi è anche Roma, Roma è la Romania. Goethe è sempre eccezione. Solamente un gigante dalla serenità olimpica come la sua è, per la verità, voce fuori dal coro che in modo quasi unanime stronca (già dai tempi di Quintiliano e, in età moderna, del Norden) tanto il periodo amoroso quanto quello dell’esilio. In una circostanza, Goethe stesso si sentì Ovidio, quando il 23 aprile 1788 dovette andar via da Roma per ritornare a Weimar: «Evitava di scrivere, per non far scomparire – sono parole di Pietro Citati – la tenera nebbia dei suoi dolori. Andava fantasticando; gli pareva d’essere Ovidio mentre, esiliato nelle lontane solitudini del Ponto, paragonava il proprio destino a quello del Tasso, trascinato come lui “verso un bando inesorabile”, costretto a fuggire sotto il nero mantello del pellegrino, come un selvaggio straniero inseguito dalle furie» (Goethe, Milano 1971, pp. 12-13).
Al contrario, la riserva leopardiana a sfavore di Ovidio consiste nell’evidenza dell’artificio retorico-sofistico che dispiacque a Schlegel. Scrivere è un artificio che non va manifestato, non deve essere visibile. Leopardi non riesce a identificarsi nel poeta bandito attestandosi su posizioni classicistiche diversamentre da quanto romanticamente fanno Shelley o Byron, più in sintonia con la facies dello sbandato. Leopardi ha tutte le ragioni per sentirsi sradicato, emarginato, eppure lo sostiene con forza estetica e morale il suo attaccamento al canone fondamentale.
Da questa stroncatura di Leopardi, più criticamente lucida della pur luminosa e affascinante identificazione goethiana, emerge la post-classicità ovidiano-ottavianea, dall’8 d.C. e anche da prima. 



mercoledì 28 novembre 2012

Virtuale





Riguardo alla mia militanza feisbuchiana e al fatto che sono stato criticato per questo: le critiche vanno prese in considerazione solo se chi le fa è in condizione di giudicare e non è mosso da intenti malevoli. Non è vero che su Facebook si tratta sempre e solo di vita virtuale (qual è poi la vita “vera”?), a me – e non credo soltanto a me – è successo che rapporti inizialmente virtuali si sono trasformati in reali. Tant’è vero che in Fb, e da Fb, imprevedibilmente accadono discussioni, equivoci, litigate, riconciliazioni, come nella vita. E i rapporti che già c’erano prima sono in grado di approfondirsi.
Internet, e Fb che ne fa parte, è una fonte di notizie di ogni tipo, in primo luogo sul piano culturale, assai più della tivù e dei giornali o dei libri stessi (cui rimandano le suddette notizie). Illusoria, in parte, la comunicazione feisbuchiana è senz’altro, ma con un potenziale di verificabilità – e, aggiungerei, di flessibilità – a medio e anche a lungo termine, insito nel discorso. Lo spirito – diceva Goethe – è «la vita della vita» e sicuramente c’è l’indizio di una qualche insania nel rapportarsi spesso e con intensità a tale vita della vita. Chi legge – chi legge molto – è un isolato sociale in partenza, e spesso anche all’arrivo: ma asociale non vuol dire antisociale.  Perciò questo tema può essere percepito solo da una minoranza – sebbene estesa in termini quantitativi molto più che non si pensi.
Purtroppo, questo sì, emergono su Fb, oltre alle qualità, pure i difetti e le contraddizioni delle persone – in genere, scrittori, intellettuali, giornalisti, ecc. – che prima stimavamo; sarebbe forse stato meglio conservarne il ricordo che ne avevamo prima di accedere ai loro profili ma tant’è: tutto non si può avere. Un altro aspetto è quello della visibilità, che non è da confondersi con la notorietà e un’altra questione ancora è quella del fraintendimento. Ma sarebbe stupido non approfittare di questa rivoluzione – profonda trasformazione e - in ogni caso – trasformazione in atto – come se quando fu inventato il telefono qualcuno si fosse rifiutato di usarlo perché non poteva vedere il volto dell’interlocutore. Io non le uso, ma esistono anche le videochat!