domenica 29 gennaio 2012

LE PREGHIERE ANNODATE




Qualcuno sta sbucciando l'aglio,
l'impasto di macinato è già pronto sul tavolo,
il pane in forno, faranno polpette buonissime.
Ho letto che Campana-Edison fra gli internati
si vantava della fragranza delle sue,
avvenne tanti anni fa, a Castelpulci.
Versiamo la nostra salvezza nella ciotola dei giorni
l'uno all'altro uguali, nella concisione del gesto ripetuto
prima che la mente si dissolva in uno scoppio di nuvole
e piova in noi il silenzio senza riparo.
Poveri, poveri, nudi perfino delle nostre sconfitte
il nostro silenzio interroga il vostro
di voi che annodate la preghiera e il canto
e conoscete la terza dimensione, il nostro silenzio
si assiepa intorno al vostro e non sa
tra buio e buio e non cede
una via meno scoscesa di questa
dove alcuni ci chiamano uomini, alcuni creature.

PIERLUIGI CAPPELLO
supplemento La Lettura del Corriere della sera, 29/1/12

mercoledì 25 gennaio 2012

Raskòl’nikov





Giudicherà tutti e perdonerà tutti, i buoni e i cattivi, i saggi e i mansueti… E quando avrà finito con tutti gli altri, allora chiamerà anche noi: «Venite avanti anche voi!» dirà. «Venite, ubriaconi; venite, deboli; venite, svergognati!». E allora noi ci faremo avanti tutti, senza vergognarci e ci fermeremo davanti a lui. Ed egli dirà: «Porci! Voi siete l’immagine e l’emblema della bestialità, ma venite anche voi!». E diranno i sapienti, diranno i saggi: «Signore! Perché accogli costoro?». Ed Egli dirà: «Li accolgo, o sapienti, li accolgo, o saggi, perché nessuno di loro si è mai reputato degno di ciò…». 
FËDOR DOSTOEVSKIJ

Raskòl’nikov è in balia del suo Edipo e l’assassinio della vecchia usuraia – nonché, non si dimentichi, della sorella di lei, derivante esplicitamente da una casualità “non casuale”, ossia direttamente dall’inconscio – rappresenta il tentativo patologico, in termini clinici, da parte del protagonista di risolvere i conflitti latenti con la propria madre e la propria sorella, attraverso quello che di fatto è un cattivo affare: il delitto appunto, anzi i due delitti. Il giudizio di Pasolini su Delitto e castigo è inequivocabilmente a favore del romanzo, sul quale ha fatto un’analisi scientificamente attendibile anche sul piano dinamico, estesa per giunta ad assonanze nietzscheane, per taluni aspetti discutibili ma quando si parla di Nietzsche la moltiplicazione dei punti di vista è più che normale: “Questa mia non è che un’umile chiacchierata e un’analisi psicanalitica a braccio; ma potrei però dimostrare, in un saggio documentario, come in Delitto e castigo ci sia un numero impressionante di espressioni ‘esplicitamente’ psicanalitiche. Ciò mi riempie di una sconfinata ammirazione, pari almeno a quella che sento per la impareggiabile ‘sceneggiatura’ del romanzo.” (Descrizioni di descrizioni, 4 gennaio 1974)

giovedì 19 gennaio 2012

Franco Freda



19 gennaio 2012. Franco Freda parla bene di coloro che, artisti, intellettuali, «concorrono al bello, alla grande passione, a Dioniso e che rifuggono la mediocrità». E fin qui tutto benissimo. Ma, salvo Moresco, degli scrittori italiani contemporanei che cita come esempi non se ne salva manco uno. Niente Murgia, Niente Scurati, niente Pennacchi (per carità!), niente Tomassini, niente Buttafuoco, niente Culicchia (proprio niente), niente Valerio e soprattutto niente Saviano. Escludo che questi, tranne Moresco, concorrano al bello, alla grande passione e a Dioniso, tant'è vero che la mediocrità li premia. Peccato, perché su altre cose - non su tutto - che afferma nell'intervista a Andrea Pasqualetto (supplemento Sette del Corriere di oggi), saremmo in sintonia.

lunedì 16 gennaio 2012

UN POETA




Poco filo mi resta, ma spero che avrò modo
di dedicare al prossimo tiranno
i miei poveri carmi. Non mi dirà di svenarmi
come Nerone a Lucano. Vorrà una lode spontanea
scaturita da un cuore riconoscente
e ne avrà ad abbondanza. Potrò egualmente
lasciare orma durevole. In poesia
quello che conta non è il contenuto
ma la Forma.

Eugenio Montale, Quaderno di quattro anni

domenica 15 gennaio 2012

La clamorosa conferma dell'amore - BENVENUTA di André Delvaux



Benvenuta di André Delvaux (1984) è stato visto pochissimo. Si tratta infatti di una rarità, di un film difficile, iperletterario, dalle significazioni strutturali aperte e con valenze mistiche interne a due storie d’amore che si intrecciano su due piani diversi. Non ha avuto riscontro massivo in Italia, nonostante le eccellenti interpretazioni.
Il giovane scrittore François (Mathieu Carrière) arriva nella vecchia città di Gand, in Fiandra, per incontrare Jeanne (Françoise Fabian), l’autrice di Benvenuta, un romanzo esaurito da quasi vent’anni dal quale vuole ricavare una sceneggiatura cinematografica. Jeanne, che fa venire in mente la Norma Desmond di Viale del tramonto, lo riceve a casa, dove vive isolata, ma rispetto al personaggio di Wilder è meno istrionica anche se ne intuiamo un’analoga miscela di grandezza e follia. Resta in piedi, con gli occhiali scuri, algida, distante, ascoltando il discorso di François sul progetto del film, poi capovolge le parole attribuite a Flaubert esclamando: «Benvenuta non sono io, mi dispiace!»  Lo scrittore vuole fare colpo su di lei citando passi di autobiografie illustri contrabbandandoli per propri, rivelandole i particolari della propria infanzia e adolescenza difficili, presupposti della sua vocazione letteraria, ma la scrittrice smaschera il plagio e gli dice: «Mio piccolo François, ho letto Rilke anch’io». La storia di cui i due stanno parlando è in realtà raccontata attraverso dei flashback che rappresentano il romanzo scritto da Jeanne vent’anni prima.
La pianista Benvenuta (Fanny Ardant), dopo un concerto al consolato belga di Milano, conosce il maturo magistrato napoletano Livio (Vittorio Gassman), dai modi eleganti. Tra Benvenuta e Livio nasce un’attrazione, complicata dalla lontananza geografica. Lo raggiunge successivamente a Milano, stanno insieme per la prima volta in albergo. Alla stazione, lui le dice: «Eccoci condannati all’assenza adesso, condannati a scriverci».
Benvenuta confida la sua nuova relazione a Inge, l’amica con cui abita. La scrittura di Livio nelle lettere che seguiranno si rivelerà essere tutta un’accozzaglia di suggestioni dilettantesche, con rare perle: «Sapendo che tu eri nella via con lo sguardo levato, non puoi immaginare con quanta tenerezza ho acceso le luci sul mio cammino. Quasi segnali. Fiaccole di festa per salutarti giocondamente».
Tutto il film è incentrato sul rapporto tra Jeanne e François e, attraverso le analessi, tra Benvenuta e Livio, al punto che entrambi si attraggono attraverso la sceneggiatura di volta in volta concordata da François-Livio e Jeanne-Benvenuta. Il loro rapporto si va così approfondendo in una seduzione reciproca della realtà e della letteratura.
Jeanne esce con François, si lascia andare sempre di più, pur invitandolo a mantenere le distanze: «Mi accorgo che ho voglia improvvisamente di passeggiare, proprio qui con lei».
La storia d’amore tra Livio e Benvenuta conosce un drammatico momento di crisi: Federico, il figlio di Livio, ha un grave incidente correndo a Monza per la Ferrari. In preda alla disperazione, Livio fa un voto e promette di rinunciare alla carne, cioè all’amore per Benvenuta, in cambio della salvezza del figlio: «Nel disegno di Dio tutto è al suo posto come in un puzzle perfetto, basta saper trovare il pezzo giusto». Federico scampa miracolosamente alla morte, la preghiera di Livio è esaudita, anche secondo Benvenuta la vita del ragazzo è salva grazie a una «conferma clamorosa dell’amore». I due amanti cercano di non incontrarsi, per rispettare il voto. La pianista litiga con Inge, quest’ultima le fa notare che Livio la sta semplicemente lasciando.
François mostra a Jeanne le diapositive dei sopralluoghi che intanto ha fatto a Pompei per il film. Ormai la scrittrice ammette di essere Benvenuta.
Benvenuta e Livio, da parte loro, non hanno resistito e si sono rivisti, il voto è stato infranto. Inge fa un’indagine presso il vice-consolato e scopre che Livio è un professionista irreprensibile ma soffre di mania senile, il suo amore per Benvenuta non sarebbe che il frutto della sua attrazione maniacale per le donne giovani. Lei è furente, non ammette una tale ingerenza di Inge nella sua vita, non le perdona questa rivelazione, la loro amicizia è definitivamente guastata. Benvenuta e Livio sospendono la relazione per i sensi di colpa derivanti dall’accordo che hanno stipulato tra loro, continuando tuttavia ad amarsi come in uno «stato di orazione perpetua».
Jeanne si rivolge a François in stato d’estasi: «Sfido chiunque a dedicarti pensieri più precisi e più violenti dei miei». Benvenuta-Jeanne vive di vita propria, ricreata da François-Livio sulla base del romanzo di Jeanne.
La scrittrice parla di sé in terza persona, raggirando attraverso François il suo amore per Livio, in un monologo a due voci: «Era talmente raffinato il dolore, talmente eccessivo il godimento…»
«…Che niente potrà più impedire…»
«…Che cosa, François?»
«…Impedire che questo… sia accaduto tra te e me.»
«Lo sai? Credo che non sarò molto in forma domani».
Il diario che Benvenuta ha inviato per posta a Livio le viene rispedito: il destinatario è deceduto.
François torna, come ogni pomeriggio, a casa di Jeanne ma non risponde nessuno, entra dal giardino e la casa è deserta. La figlia della scrittrice lo informa al telefono che Jeanne è stata investita da una macchina, sta per entrare in sala operatoria.
Restano Benvenuta e François. Livio è morto e non si conosce il destino di Jeanne, l’esito dell’operazione è ancora ignoto. Benvenuta è restituita a François, Jeanne a Livio.

sabato 14 gennaio 2012

La morte di Virgilio di Hermann Broch/1




Il porto di Brindisi, brulicante di vita corrotta e di degradanti segni di sfacelo, accoglie di sera il malandato poeta, stanco e agonizzante. La plebe intorno a lui non lo riconosce, ne è incuriosita soltanto perché lui è al seguito dell’imperatore e dev’essere un personaggio importante. Viene trasportato lentissimamente in lettiga in mezzo alla folla urlante, scomposta – gli lanciano invettive d’invidia, insulti, è paurosamente costretto a chiudersi gli occhi con le mani per non vedere lo spettacolo offertogli della più nera quotidianità miserabile – fino al palazzo imperiale piantonato dalla coorte pretoriana. Un funzionario gli chiede chi sia per verificare se il suo nome è tra quelli degli ospiti e il famoso autore dell’Eneide, non senza risentirne nell’orgoglio, glielo dice: «Sì, Publio Virgilio Marone, questo è il mio nome». Gli si replica solo con un vago cenno affermativo del capo. Per l’intero tragitto dalla nave fin lì, del resto, aveva vagliato malinconico i cupi segni di thanatos devastanti in modo inverosimile, aveva resistito interrogandosi se quello che stava vivendo fosse un avvertimento del destino, una minaccia o l’irrevocabile inizio dell’ultima conoscenza.




venerdì 13 gennaio 2012

HA VINTO IL TOTALITARISMO FASCIOCOMUNISTA: ECCO PERCHE' SE GLI ITALIANI NON PARLANO DI POLITICA NON PARLANO DI NIENTE.




Se Leopardi fosse invitato in un talk show italiano e cominciasse a parlare dell’infinito, gli chiederebbero se con l’ermo colle si riferisce a Giorgio Napolitano e cosa pensa del governo Monti. Quando Bret Easton Ellis è venuto in Italia a presentare il suo ultimo romanzo, Antonio Scurati, che lo intervistava, gli chiese cosa pensava di Berlusconi.
Insomma, se c’è qualcuno che ha vinto l’egemonia culturale in Italia sono stati i marxisti, ma non solo: anche il fascismo, rovescio della stessa medaglia al valore civile. La cultura di sinistra, la cultura di destra, in mezzo il nulla, al massimo della neutralità da conversazione un criminologo e un sociologo che discutono di Avetrana. La politica e la società come totalitarismo del pensiero, infatti i giornalisti passano per scrittori e gli scrittori o sono giornalisti o non sono niente. Siamo il paese dell’impara l’arte e mettila da parte, e cioè un ferro da stiro va bene, il ferro da stiro con chiodi di Man Ray a che serve? 
E così da noi ogni controcultura è sempre stata di sinistra o di destra, non si è mai visto un centro sociale riconoscersi in Joyce o Proust. E caduta la dittatura mussoliniana, abbiamo tirato avanti per decenni con la dialettica fascismo vs antifascismo, sostituendola con quella global vs no-global, e subito dopo con quella berlusconismo vs antiberlusconismo, e adesso siamo in fase di assestamento, bisogna solo aspettare di tracciare il nuovo centrocampo, la nuova linea di separazione tra buoni e cattivi, e saremo pronti a ricominciare.
Non per altro da noi non regge nessun tema non politicizzabile a lungo termine, dalle cellule staminali al nucleare, dalle coppie di fatto all’eutanasia, dalla nascita alla morte: o si riesce a incasellarli in indiani e cow-boys, oppure non appassionano, e a parte Leopardi figuriamoci dove sarebbe mai potuto andare un Richard Dawkins in Italia a parlare del suo ultimo saggio sull’evoluzionismo che ha fatto il giro del talk show americani, forse da Benedetta Parodi se accettava di parlare dell’evoluzione di una carbonara.
I palinsesti televisivi sono tali e quali ai carteggi della cricca intellettuale dell’Einaudi dopo il secondo dopoguerra: perfino per Calvino e Pavese i libri non erano belli o brutti, erano portatori di valori di antifascisti oppure da scartare, e si scartò perfino Nietzsche, troppo superuomo.
E poi ci si domanda, retoricamente, perché De Gasperi lasciò a Togliatti la gestione della cultura: a noi il potere, a voi la cultura. Tanto era uguale, perché la cultura, appaltata al PCI, aveva per centro la lotta politica, quindi di nuovo la DC o peggio, il discorso sul potere. È per questo che ancora oggi si tira fuori il santino di Pasolini come un illuminato che, scrivendo “io so”, sapeva tutto e aveva previsto tutto: non ci siamo mai mossi da lì.
Io ogni tanto provo a aggrapparmi a Aldo Busi, uno dei pochi scrittori italiani a aver scritto romanzi veramente importanti, ma anche lui parla solo di società civile, dell’onestà, del governo in carica, come se fosse Beppe Grillo. Ho provato anche a chiederlo a Alberto Arbasino, ma la risposta, in sintesi, è stata che ha già dato. Ho provato a chiederlo a Antonio Moresco ma non l’ho trovato a casa, era impegnato a organizzare una marcia da Milano a Napoli per salvare l’Italia da Berlusconi e dalla cattiveria politica.
In definitiva ha vinto la cultura gramsciana dell’intellettuale organico, ossia che l’intellettuale debba occuparsi di politica, altrimenti è disimpegnato. Come gli uomini e no di Vittorini. Ha vinto l’idea che non ci sia tema importante culturalmente che non abbia al centro la politica, un problema sociale, uno scandalo giudiziario, un diritto civile, e senza più dissoluzione di continuità linguistica tra il discorso istituzionale e il discorso popolare. Il governo Monti è solo uno stand-by tecnico, infatti si esprimono come software, e i leghisti sono diventati di colpo cafoni perché parlano come parlavano tutti prima.
Ha vinto l’idea totalitaria che qualsiasi aspetto fondante dell’esistenza e dell’esperienza passi per la politica, rigorosamente declinata in chiave moralistica e barricadera. Qui perfino se venisse avvistato dalla NASA un asteroide in rotta verso la terra e della stessa dimensione di quello che causò l’estinzione dei dinosauri ci chiederemmo se è di destra o di sinistra o tecnico, altrimenti non sapremmo come prenderlo.
Ecco perché non c’è trasmissione dove si possa approfondire un romanzo o un saggio non improntato socialmente e politicamente, perché alle otto si danno le notizie di politica, alle otto e mezzo si approfondisce la politica, alle nove ci si ritrova in una piazza pulita politica, alle nove e un quarto si cerca guarda su Sky e Cielo un servizio pubblico politico, e quindi: i giovani, gli immigrati, la crisi, la cricca, la casta, gli onesti, i disonesti, l’Italia, l’Europa. Come ultima spiaggia resta L’Isola dei famosi, dove mon chéri Busi, il più grande scrittore italiano vivente eccetera, due anni fa voleva andare a fare la rivoluzione culturale. Ovviamente politica.

Massimiliano Parente per Il Giornale, 13 gennaio 2011



giovedì 12 gennaio 2012

Inedito



Senza nome il tuo silenzio
imitiamo, alibi per una rappresentazione naturale
e insieme identità che dà forza,
tentato il verso viene.

Disonorati gli impegni, la vita è un lascito
a contratto con clausole ignote,
e ancora dopo il sonno
è più innocua la volgarità
vagante in frantumi fastosi.

domenica 8 gennaio 2012

Antiromanzo



8 gennaio 2012. Su La Lettura del Corriere una recensione di Gilda Policastro a Teoria del romanzo di Guido Mazzoni (Il Mulino). Si parte dal Satyricon. È significativa questa chiamata in causa di Petronio, anche se (e proprio perché) il romanzo antico era un genere letterario delle classi subalterne derivante dalla degradazione di forme e temi dell’alta cultura greca, portato da Petronio nell’alta letteratura romana sottoforma di romanzo rovesciato, un antiromanzo dalla struttura estremamente composita e allo stesso tempo profondamente unitaria. D’altra parte «nella sequenza dei testi accreditati ad un genere accadono spesso inezie, – scriveva Giancarlo Mazzacurati in Il Fantasma di Yorick. Laurence Sterne e il romanzo sentimentale (Liguori 2006, pp. 71-72) - che d’improvviso si trasformano in veri e propri uragani e modificano le più radicate tipologie, le più certificate formule, con un effetto d’urto che coinvolge anche i generi contigui». Questa ibridazione dice ancora molto alla letteratura italiana di oggi. È dunque necessario «leggere anche in forme meno massive» (per usare un’espressione della Policastro), tant’è vero che il superamento del genere è ormai una realtà quasi universalmente conclamata.

lunedì 2 gennaio 2012

[Mistero della presenza reale ed enigma del Medesimo]



“in ogni religione l’uomo religioso è un’eccezione”
(F. Nietzsche, La gaia scienza, III, 128)

1. Circolo vizioso. La nozione di “inconscio” è assente nel linguaggio di Klossowski. La realtà del corpo sostituisce l’irrealtà dell’inconscio, per cui la dialettica si pone in termini di coscienza/corpo e non più, freudianamente, coscienza/incoscienza. La semiotica impulsionale riguarda esclusivamente il corpo. L’inconscio è il corpo. Le forze impulsionali sono del e nel corpo, perché il sé è il corpo.
Il simulacro è, viceversa, un compromesso ossia la necessità strategica di aderire, attraverso la simulazione/dissimulazione, al linguaggio dell’ambiente istituzionalmente inteso. La finalità del simulacro come pensiero corporante è infatti l’espressione del sé corporeo impulsionale, sia pur senza negare la realtà istituzionale ma instradandola su valori positivi. Il simulacro per eccellenza è l’arte. 

Risposta al post “Scontro al vertice (II)” nel blog Cr@pulaClub


Un bell’agone calcistico! Semmai ci vedrei di più Sacher-Masoch al posto di Sade nei rapporti con Socrate. Magari Rimbaud sarebbe più interessato all’estremità tanto bellina di Alcibiade, a sto punto… Ma che Sartre abbracci Socrate mentre Arturo gli vomita addosso è esilarante! Complimenti a alfahridi e a Alonso Quijano.