mercoledì 21 novembre 2012

La morte di Cicerone





Nella prima metà del 43 Cicerone pronuncia le altre dieci Filippiche, stimolando instancabilmente senato e popolo alla lotta contro Antonio: l’ultima la pronuncia in senato nel tripudio per la prima vittoria di Modena, mentre il popolo lo acclama; ed è ancora esortazione a condurre la lotta sino in fondo. Ma la seconda vittoria di Modena costa la vita ai consoli Irzio e Pansa; Antonio riesce a fuggire nella Gallia Narbonese, ove si accorda con M. Emilio Lepido, che era succeduto a Cesare nella carica di pontefice massimo. Ottaviano si stacca da D. Bruto e, benché non avesse ancora compiuto venti anni, osa imporre con la forza delle armi al senato di concedergli la carica di console. Indi torna nell’Emilia, si accorda presso Bologna con Antonio e Lepido che erano ridiscesi in Italia e costituisce con loro il secondo triumvirato, che è una carica pubblica di carattere straordinario («tresviri reipublicae constituendae») e di spirito nettamente antitradizionalista e cesariano. Come ai tempi di Silla, i nuovi dittatori, occupata Roma, inaugurano il loro potere con le proscrizioni. Il nome di Cicerone, abbandonato da Ottaviano al rancore di Antonio, apre la lista dei proscritti. Rifugiatosi nella sua villa di Tuscolo e di lì fuggito verso la costa campana, egli non riuscirà a prendere il mare e sarà raggiunto presso Formia dai sicari di Antonio, che lo uccideranno il 7 dicembre. Saranno trucidati anche il fratello Quinto e il figlio di costui.
Un frammento di Livio, conservatoci da Seneca il vecchio, contiene un drammatico racconto della morte di Cicerone e un equanime giudizio della sua figura politica e morale:

M. Cicerone, nell’imminenza dell’arrivo dei triumviri, s’era allontanato da Roma, ritenendo per certo – come in realtà era – di non poter sfuggire alla vendetta di Antonio più di quanto Cassio e Bruto avrebbero potuto sfuggire a quella di Cesare (Ottaviano). Dapprima si rifugiò nella sua villa di Tuscolo, di lì si diresse, per vie secondarie e traverse, in quella di Formia, con l’intenzione di salpare da Gaeta. Ma dopo essersi più volte spinto di lì in alto mare, poiché ora i venti contrari lo risospingevano a riva, ora lo sconvolgeva il rullio della nave sbattuta dai marosi, fu preso dal disgusto della fuga e della vita stessa: rientrato nella villa che guarda dall’alto il mare e ne dista poco più di un miglio: «Morrò – disse – nella patria tante volte salvata». È risaputo che gli schiavi eran pronti a battersi strenuamente e fedelmente per lui; ma egli ordinò loro di porre a terra la lettiga e di tollerare senza ribellarsi ciò che la sorte avversa imponeva. Mentre si sporgeva dalla lettiga e tendeva il collo senza un fremito, gli fu recisa la testa. Né ciò fu abbastanza per la stolta ferocia dei soldati: gli tagliarono anche le mani, facendo loro carico d’aver scritto contro Antonio. Poi la testa fu recata ad Antonio e per ordine suo fu esposta, in mezzo alle due mani, sui rostri, là dove egli, parlando e da console e da consolare e in quell’anno stesso contro Antonio, aveva suscitato negli ascoltatori tanta ammirazione quanta nessun’altra voce umana mai. A stento, sollevando gli occhi annebbiati dalle lagrime, gli uomini potevan reggere la vista di quelle membra mutilate. Visse sessantatré anni, sì che, se si fosse spento per esaurimento naturale, non potremmo neanche giudicar prematura la sua morte; il suo ingegno fu fecondo di opere, che gli procurarono adeguata rinomanza; godette a lungo di prospera fortuna, e bersagliato ogni tanto, pur nella lunga durata della sua fortuna, da gravi colpi, l’esilio, il crollo del partito cui s’era aggregato, la morte della  figlia, una fine così dolorosa e atroce, non seppe sopportare virilmente nessuna di queste avversità, tranne la morte; ed essa, in chi sapeva ponderar bene le cose, avrà esercitato minore indignazione, perché egli dal nemico vincitore non aveva avuto a soffrire nulla di più crudele di quanto egli stesso sarebbe stato capace di fare, se avesse potuto raggiungere il medesimo successo. Ma se vogliamo controbilanciare i difetti con le virtù, dobbiamo riconoscere che fu uomo magnanimo, alacre, degno di eterno ricordo, e tale che a celebrarne i meriti occorrerebbe l’eloquenza di un altro Cicerone.

(Ettore Paratore, La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea, Rizzoli 1993, pp. 235-236)