giovedì 18 luglio 2013

Ὦ παῖ, τέλος μὲν Ζεὺς ἔχει βαρύκτυπος



Ὦ παῖ, τέλος μὲν Ζεὺς ἔχει βαρύκτυπος
πάντων ὅσ' ἐστὶ καὶ τίθησ' ὅκηι θέλει.
νóος δ' οὐκ ἐπ' ἀνθρώποισιν· ἀλλ' ἐπήμεροι
ἃ δὴ βοτὰ ζώομεν οὐδὲν εἰδότες
ὅκως ἕκαστον ἐκτελευτήσει θεός.
ἐλπὶς δὲ πάντας κἀπιπειθείη τρέφει
ἄπρηκτον ὁρμαίνοντας. οἳ μὲν ἡμέρην
μένουσιν ἐλθεῖν, οἳ δ' ἐτέων περιτροπάς.
νέωτα δ' οὐδεὶς ὅστις οὐ δοκεῖ βροτῶν
πλούτωι τε κἀγαθοῖσιν ἵξεσθαι φίλος.
φθάνει δὲ τὸν μὲν γῆρας ἄζηλον λαβὸν,
πρὶν τέρμ' ἵκηται· τοὺς δὲ δύστηνοι νóσοι
φθείρουσι †θνητῶν· τοὺς δ' Ἄρει δεδμημένους
πέμπει μελαίνης Ἀίδης ὑπὸ χθονός,
οἳ δ' ἐν θαλάσσηι λαίλαπι κλονεύμενοι
καὶ κύμασιν πολλοῖσι πορφυρῆς ἁλὸς
θνήσκουσιν, εὖτ' ἂν †μὴ δυνήσωνται ζόειν.
οἳ δ' ἀγχόνην ἅψαντο δυστήνωι μόρωι
καὐτάγρετοι λείπουσιν ἡλίου φάος.
οὕτω κακῶν ἄπ' οὐδέν, ἀλλὰ μυρίαι
βροτοῖσι κῆρες κἀνεπίφραστοι δύαι
καὶ πήματ' ἐστίν. εἰ δ' ἐμοὶ πιθοίατο,
οὐκ ἂν κακῶν ἐρῶιμεν οὐδ' ἐπ' ἄλγεσι
κακοῖv ἔχοντες θυμὸν αἰκιζοίμεθα.

[testo greco sicuro, salvo qualche aporia, del giambo di Simonide Amorgino riportato nei manoscritti di Stobeo e quale è recepito nelle edizioni moderne da Diehl 1923, West 1972, 1980, fino alla più recente Pellizer 1990. All’ecloga 15, introdotta dal lemma Σιμωνίδου c’è il giambo di 24 trimetri che comincia: ὦ παῖ, τέλος μὲν Ζεὺς ἔχει βαρύκτυπος e finisce con: κακοῖv ἔχοντες θυμὸν αἰκιζοίμεθα corrispondente al canto XL di G.L.]

***
Simonide
(Stobeo)

Ogni mondano evento
È di Giove in poter, di Giove, o figlio,
Che giusta suo talento
Ogni cosa dispone.
Ma di lunga stagione
Nostro cieco pensier s’affanna e cúra,
Benchè l’umana etate,
Come destina il Ciel nostra ventura,
Di giorno in giorno dúra.
La bella speme tutti ci nutrica
Di sembianze beate
Onde ciascuno indarno s’affatica;
E quale il mese e quale il dì che amica
Gli fia la sorte aspetta;
E nullo in terra vive
Cui ne l’anno avvenir facili e pii
Con Pluto gli altri iddii
La mente non prometta.
Ecco pria che la speme in porto arrive
Qual da vecchiezza è giunto
E tal da’ morbi al nero Lete addutto:
Questo il rigido Marte e quello il flutto
Del pelago rapisce: altri consunto
Da l’egre cure, o tristo nodo al collo
Circondando, sotterra si rifugge.
Così di mille mali
I miseri mortali
Volgo fiero e diverso agita e strugge.
Ma se dal vano errore
Mai si recasse a men distorta via,
Patir non sosterria,
Nè fra tanto dolore
L’uomo al suo proprio mal porrebbe amore.

[Carte Leopardiane, Biblioteca Nazionale di Napoli (X 1. 2a)]

***
DAL GRECO DI SIMONIDE

Ogni mondano evento
È di Giove in poter, di Giove, o figlio,
Che giusta suo talento
Ogni cosa dispone.
Ma di lunga stagione
Nostro cieco pensier s’affanna e cura,
Benchè l’umana etate,
Come destina il Ciel nostra ventura,
Di giorno in giorno dura.
La bella speme tutti ci nutrica
Di sembianze beate,
Onde ciascuno indarno s’affatica;
Altri l’aurora amica,
Altri l’etade aspetta;
E nullo in terra vive
Cui nell'anno avvenir facili e pii
Con Pluto gli altri iddii
La mente non prometta.
Ecco pria che la speme in porto arrive,
Qual da vecchiezza è giunto
E qual da morbi al nero Lete addutto;
Questo il rigido Marte, e quello il flutto
Del pelago rapisce; altri consunto
Dall’egre cure, o tristo nodo al collo
Circondando, sotterra si rifugge.
Così di mille mali
I miseri mortali
Volgo fiero e diverso agita e strugge.
Ma per sentenza mia,
Uom saggio e sciolto dal comune errore
Patir non sosterria,
Nè porrebbe al dolore
Ed al mal proprio suo cotanto amore.


[G.L., autografo 1827 per l’edizione Starita, Leopardi apporterà su questa edizione le correzioni “ciel” al posto di “Ciel” al v. 8, “bruno Lete” al posto di “nero Lete” al v. 21, “da negre cure” al posto di “dall’egre cure” al v. 24]

sabato 13 luglio 2013

Bisogna vivere εỉκῇ témere, au hasard, alla ventura

Così Marcello Gigante, riferendosi al passo: «Bisogna vivere εỉκῇ témere, au hasard, alla ventura», contenuto in Zib., 2529 (30 giu. 1822), ha asserito: «Non credo al Lonardi che pur avendo bene scritto: “Leopardi ha sentito più di quel che si usi notare l’attrazione e il rimpianto di una vita libera dalla finalizzazione, paga del presente e di una speranza abbandonata e vitale” fa risalire l’accezione di εỉκῇ all’omerico αὔτως “così come si sia εỉκῇ”: tale presunta ascendenza omerica è errata (Cf. A Greek-English Lexicon, compiled by H.G. Liddel and R. Scott, revised and augmented throughout by sir H. Stuart Jones, with a revised supplement, Oxford 1996, s.v. αὔτως: i grammatici distinsero αὔτως ‘similmente’ da ατως ‘invano’). Né può valere la presunta autorità dello stesso Leopardi il quale nello Zib., 4224 chiosa αὔτως di Arato (Fenomeni, 107): “’così’, come si sia, εỉκῇ”. Ma in Zib., 2529 Leopardi ha scritto “bisogna vivere εỉκῇ”, non αὔτως. Egli, credo, aveva letto il v. 979 dell’Edipo Re di Sofocle:
εỉκῇ κράτιστον ζῆν, ὅπως δύναιτό τις»

(cfr. Marcello Gigante, Leopardi e l’antico, Napoli 2002, p. 53).