martedì 12 febbraio 2013

Il «gran rifiuto»






Allor Virgilio disse: “Dilli tosto:
“Non son colui, non son colui che credi”;
e io rispuosi come a me fu imposto.
(Inf., XIX, 61-63)



È cominciato, c’era da aspettarselo, il bombardamento mass-mediatico in termini di riconoscimento di coraggio, responsabilità, umiltà da Napolitano a Cacciari passando per Monti e tanta bella allineata compagnia. Va da sé che sono dichiarazioni di carattere istituzionale e in quanto tali non suscitano interesse analitico nella loro prevedibilità e hanno solo importanza strategica, comprese le televisioni. Invece vi è un che di sinistro, percepibile, in questa notizia. 
       Si tratta solo di una mia sensazione, ma i sentimenti e le sensazioni sono storiche a differenza della verità che mai sapremo. Questa notizia non promette nulla di buono e, anche se la si vuol far derivare da una legittima decisione di natura esclusivamente soggettiva, l’impatto crea turbamento. Oggettivamente, dai tempi di Celestino V, va ribadito (di cui Dante[1] peraltro non fa il nome, non è detto che si tratti di lui, quindi nessuno è legittimato stricto sensu a parlare di ignavia a proposito dell’abdicazione dei papi), non era mai accaduto nulla di così clamorosamente simile. Ho anche da ridire sul verbo “dimettersi” come se si trattasse di un lavoratore qualunque. Qualunque sia la motivazione, il gesto è enorme e implica la sua insormontabile necessità. Tutto questo dà inquietudine, non mi piace e preoccupa mentre va a incidere sulla situazione già poco sicura della traballante Europa, in particolare quella mediterranea. E si volge all’intero Occidente in senso più esteso, et Urbi et orbi.
Lefebvre era stato sospeso a divinis da Paolo VI, Benedetto XVI ha fatto la politica contraria. Nessuno dubita del valore filosofico e teologico di papa Ratzinger purché si rifaccia il processo a Galileo, ma è un dato di fatto che laddove Wojtyla è stato capace di accogliere, sempre sulla stessa linea conservatrice ma con risultati pastorali più evidenti, benché ambivalenti, sotto Benedetto XVI molti si sono allontanati dalla chiesa, e dal punto di vista laico è innegabile che le sue posizioni sono oscurantiste, anche per i cattolici. Questo per un cristiano è secondario perché si può ben essere cristiani anche fuori della chiesa, se lo si è, ma non è possibile seguirlo nella sua ossessione pre-moderna che rimuove il destino dell’individuo e riduce il cristianesimo a un’eresia per famiglie, visto che non si parla d’altro. Spiace dirlo - davvero, e lo dico col massimo rispetto e riverenza dantesca - , in questi termini forse perentori adesso, ma è quanto è accaduto.




[1] Non sarebbe il caso di smettere di attribuire a Dante questa indicazione? Sapegno chiarisce bene questo punto, Dante non nomina espressamente Celestino V. È probabile che si tratti anche di Ponzio Pilato, o solo di un simbolo dell’ignavia. Capisco che il pensiero vada a Celestino V, ma niente autorizza alla lettera tutta questa certezza: «Tra questi, quello di Pilato sembra senz’altro il più attendibile, perché il suo gesto di viltà, sia per la gravità intrinseca, sia per la rinomanza proverbiale che ne viene a chi l’aveva commesso, è il solo cui s’adatti appieno la qualifica di gran rifiuto. Del resto, a guardar bene, la questione così a lungo dibattuta appare irrilevante. La figura dell’innominato non ha nel contesto un suo risalto specifico; è piuttosto un personaggio –emblema, termine allusivo di una disposizione polemica, che investe non un uomo singolo, ma tutta la schiera innumerevole degli ignavi» (Natalino Sapegno).