martedì 25 ottobre 2016

Jean-Jacques


1. Bobbio[1] avrebbe fatto meglio a scegliere Voltaire come portabandiera della sinistra opposta alla destra. La rivoluzione francese non aveva avuto effetti benefici sul piano industriale, ancora una volta aveva visto bene Rousseau, pensando che in Francia nessuna rivoluzione sarebbe stata possibile. Anzi ne ebbe di deleteri, perché l'Inghilterra e la Germania si svilupparono più in fretta e senza rivoluzioni; in Francia ci fu un progresso senza sviluppo. Rousseau è il primo “rossobruno” (che è più un’etichetta da gossip malriposto, qui utilizzata per motivi di comodo, che non una vera categoria di riferimento) della storia: il suo egualitarismo, che pur è nella lettera, ha un fondamento più etico-politico che sociale; ma poi a tutti i philosophes - con cui però Rousseau ruppe i rapporti - non interessava realmente incidere nel sociale. I giacobini erano autoritari e antiegualitari di fatto.

2. A parte il fatto che Rousseau è individualista e romantico, in specie l'ultimo, - nonostante Il contratto sociale, anzi proprio in ragione di quello, che è un trattato di diritto politico, e opera di etnologo, come vide Lévi-Strauss – asociale e non illuminista, la sua è una critica alla polis e insieme un progetto ultramoderno di costruzione dell’individuo e del singolo, dentro/fuori la storia.

3.
Le Confessioni, che sono un romanzo molto più de Les liaisons dangeresuses di Choderlos de Laclos, hanno cadenze qua e là proustiane. Ovviamente Proust le aveva avute presenti quantomeno nel senso paradossale che c’è del Proust in Rousseau, si può dire, come c'è del Diels in Eraclito o del Marullo in Lucrezio. Si può leggere Proust in Rousseau, come sanno pochissimi lettori.

4.
Il sapere è potere? È il sapere legato all’esperienza? La preparazione, che del sapere è un aspetto funzionale, consiste a sua volta nel saper fare? Se la risposta è sì, il sapere è potere perché la sua funzionalità è necessariamente relativa all’ambito teorico e operativo nel quale esiste la competenza specifica. Se quest’ultima non ci fosse, non si darebbero né sapere né potere.
Ma il sapere è potere proprio in ragione del limite (campo di competenza) e non grazie a un ipotetico assoluto da cui si diramino le molte tipologie del potere. Il limite dà luogo al potere, non il contrario. Un sapere che fosse illimitato è inconcepibile, e in quanto tale inesistente e impotente.
I fondamenti logici della scienza sono dati a priori e non sono dimostrabili anche se proprio da questi si arriva alla dimostrazione del dato scientifico non opinabile, non sottoposto al gusto soggettivo che appartiene al corporeo e all’illusorio. Certamente questo è stato vero in una certa fase della cultura occidentale, quando l’uomo greco ancora non distingueva il mito dalla ragione e nemmeno la scienza dalla filosofia.

5. Ubi maior… - Ma il più forte non è necessariamente il più giusto.
Si può essere più forti in nome del diritto, ma questo non dice ancora nulla in termini morali. E si cede al più forte non per volontà ma per necessità o per disagio della civiltà. O per prudenza: ancora una volta non per ragioni morali. Non per niente Rousseau parla del diritto come di un “imbroglio inestricabile”: ne consegue che il diritto proviene dalla forza, dal momento che “ogni forza che superi la precedente, le succede nel diritto” (Il contratto sociale, I, 3).
È ovvio che si ubbidisce al diritto, che è una forza, né, essendo tale, si potrebbe altrimenti. Perciò la forza non crea alcun diritto, perché si è visto che non ha senso sottomettersi per dovere. Al contrario, è dovere la libertà, e è anche un diritto umano originario ma che non coincide incondizionatamente col diritto civile, è subordinata alla volontà generale e anzi “forzata” da quest’ultima diventando l’antitesi della libertà naturale. La volontà generale non coincide con la volontà di ciascuno. La volontà generale non può abbattersi sull’individuo, la legge per sua natura non considera questo individuo particolare, di per sé ambivalente o flessibile (nella partecipazione al disagio della civiltà – che poi non è che “questa” civiltà). Analogamente il singolo non può usare la forza della legge contro la volontà generale nemmeno come membro dello stato, a meno che non si tratti di una sentenza della magistratura. Più la volontà dei singoli individui si allontana dalla volontà generale, maggiore dovrà diventare la repressione esercitata dal più forte. Così, se nell’età moderna è finita la schiavitù, questa in realtà si è trasformata nel popolo che è inammissibile abbia suoi veri rappresentanti, e su questo punto ancora Rousseau è categorico: “nel momento in cui un popolo si dà dei rappresentanti non è più libero, non esiste più” (Il contratto sociale, III, 15).
Il mondo antico aveva schiavi ma non rappresentanti del popolo, al contrario dei popoli moderni che sono schiavi e hanno loro rappresentanti. La storia è anche un regresso continuo e inesorabile ovvero progresso irrimediabile verso il peggio, il che è una delle ambiguità di Rousseau mentre rivendica la necessità della forza (dialettica) – contraddizione in termini rispetto allo stato di natura – per conservare la libertà e l’uguaglianza.

6. “Quando dal Machiavelli e dal Vico si passa a leggere il Contratto sociale, si ha l’impressione di non saper più in che mondo ci si trovi: certo, non nel mondo della storia politica né della filosofia della politica. Il problema del Machiavelli era di affermare la qualità propria e la necessità della politica come politica; quello del Vico, d’intendere come la dura e violenta politica si congiunga con la vita etica. Ma il problema del Rousseau non è di questa sorta, e, in fondo, non è un problema che si riferisca all’indagine della realtà. Si tratta, com’egli stesso dice, di escogitare una forma di associazione, nella quale ‘chacun s’unissant à tous, n’obéisse pourtant qu’à soi-même et reste aussi libre qu’auparavant’” (Benedetto Croce, Elementi di politica).

7. Rousseau dell’umanità pensava che fosse come un cane sofferente. Questo vuol dire che sentiva più vicino a sé un cane che non l’umanità intera.

8. Come funziona l’oggetto teorico denominato contratto sociale?
È un funzionamento – scrive Althusser – “possibile soltanto attraverso il ‘gioco’ di uno scarto teorico interno (Scarto I)”[2]. Questo Scarto permette la soluzione del problema politico attraverso il contratto sociale. Ma, siccome quest’ultimo ha a sua volta la funzione di smascherare proprio il gioco di questo scarto teorico, bisogna trasferire lo Scarto I nella forma di uno Scarto II. Attraverso lo stesso meccanismo, lo Scarto II rinvia a un III, il III a un IV. In altri termini, il funzionamento dell’oggetto teorico contratto sociale è soltanto possibile mediante una catena di soluzioni che, come una scatola cinese, è costituita da vari scarti, ognuno dei quali rimanda al successivo. Ne consegue che delle interpretazioni che sono state date del Contratto sociale – kantiana, hegeliana ecc. – nessuna è arbitraria in quanto tutte coesistono fondandosi sulle molteplici possibilità del testo di Rousseau.
La legittimità della legge di maggioranza, ossia il corpo sociale depositario di quella legittimità, non deriva, come vorrebbe Locke, dalla natura, bensì da una convenzione “giuridicamente anteriore”[3] alla stipulazione della legge di maggioranza. L’uomo è passato dallo stato di natura allo stato di guerra. Dalla rivoluzione agricola in poi, dal momento in cui è iniziata la coltivazione della terra, la natura non è in guerra con l’uomo ma gli ostacoli (effetto dello stato di guerra) da sormontare per preservare lo stato di natura, sono  interni ai rapporti umani esistenti. Stato di guerra è proprio da intendersi nel senso forte hobbesiano: “questo stato è un rapporto costante e universale esistente tra gli uomini, dunque indipendente dagli individui, fossero pure pacifici”[4]. Sono questi ostacoli, derivati dallo stato di guerra, a nuocere. Essi contrastano il fatto che gli uomini cerchino di conservare lo stato di natura e minacciano la vita libera.
Althusser chiama questo stato di guerra perpetua: alienazione. Agli ostacoli procurati dallo stato di guerra, l’uomo oppone, per preservare la propria libertà, le forze “di cui dispone ‘ogni individuo’”[5]. L’uomo si è alienato nell’ambito dello stato di natura attraverso il processo storico che è culminato nello stato di guerra. Nel momento in cui rientrano in quelle forze i beni posseduti, è apparsa una nuova categoria: l’interesse. L’istituzione della società nasce proprio dall’opposizione degli interessi particolari. Ed è logico che ogni interesse, per essere particolare, necessariamente deve stare in competizione con altri interessi particolari.





[1] Il riferimento qui è naturalmente a Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Roma, Donzelli Editore, 1994. È opportuno precisare che, se la dicotomia destra/sinistra veniva problematicamente analizzata partendo dalla constatazione della fine delle ideologie, o quantomeno della loro crisi, Bobbio stesso ribadiva in quel volume l’obiezione per cui “le ideologie non sono scomparse affatto, anzi sono più vive che mai. Alle ideologie del passato se ne sono sostituite altre, nuove o che pretendono di essere nuove. L’albero delle ideologie è sempre verde” (p. 5). È inoltre utile segnalare per approfondire la questione il saggio di Marco Revelli, Sinistra Destra. L’identità smarrita, Bari, Laterza, 2007.
[2] Louis Althusser, L’impensato di J.-J. Rousseau, a cura di Vittorio Morfino, introduzione di Augusto Illuminati, Milano, Mimesis althusseriana, 2003, p. 24.
[3] Althusser 2003, p. 26.
[4] Althusser 2003, p. 27.
[5] Althusser 2003, p. 28.

venerdì 14 ottobre 2016

lunedì 30 maggio 2016

Lunedì 30 maggio 2016


Vengono tante di quelle idee in biblioteca, una raffica di idee e teorie estemporanee delle quali alcune svaniscono dopo pochi secondi per la loro infondatezza, altre magari erano valide ma volano via, altre ancora le appunto atecnologicamente a mano su due quaderni, uno più piccolo e un altro grande, e anche tecnologicamente sul tablet, che alla fine mi domando se tra tanto materiale non sia sufficiente aver solo pensato. Ma la risposta è no, non mi piace lasciare le cose incompiute, e lo scopo di quegli appunti è l’elaborazione successiva.

Mi piace

Je m'en fiche

Di fronte all’invidia altrui non si sa mai come regolarsi. In linea di massima, l’invidia va ignorata. Forse perché è un sentimento subdolo - degradante per primo per chi lo prova, ma cazzi suoi, - non lo capisco in quanto non lo provo, e siccome non lo provo mi è pure difficile riconoscerlo negli altri. Ma certamente non mi abbasso a tanta inferiorità d’animo da elaborare un comportamento sullo stesso piano che dovrebbe presupporre in primo luogo un dialogo su una parità di livello che non riconosco. Se mi si estorce tale parità (la vita è fatta di tanti casi e contesti e situazioni, che magari succede anche questo) non ha alcun valore e resta il fatto che è stata estorta e quindi bella forza! non c’è stato nessun mio riconoscimento: dove risulterebbe? Posso tutt’al più, di rado, provare ammirazione ( sono abbastanza nobile da non andar elargendo ammirazione a tutto spiano), che è un’altra cosa e quando c’è è un piacere esternarla. Oppure mi regolo al momento: se la persona mi è simpatica (esistono invidiosi simpatici? talvolta; è un ossimoro ma la vita è piena di contraddizioni) arrivo anche a simulare una parità di grado e la cosa perfino mi diverte e la prendo come un esercizio dialettico o teatrale. Tanto non era vero niente, almeno da parte mia, soprattutto là dove ogni parlare è vano. Altrimenti, se mi è antipatica, dipende dalle circostanze: o arrivo alla guerra aperta, che tuttavia deve essere degna di venire combattuta: talora lo è; non mi dispiace litigare; ma bisogna scegliersi un nemico valoroso, se no non ne vale la pena; oppure, ignoro e passo oltre. E la maggioranza delle persone che incontriamo quotidianamente, compresi i simulacri vagolanti per questo social, sono qualcosa che deve essere superato. In linea di massima, je m’en fiche.


Giorgio Albertazzi

Cinematograficamente con Resnais aveva dato il massimo. Avevo visto Giorgio Albertazzi varie volte, ricordo un Re Lear prodigioso, credo nei primi anni '90, alla Reggia di Caserta, poi insieme alla Proclemer (lei superba) in una Lectura Dantis. Televisivamente il Jekyll con la sua regia è un capolavoro. In particolare, avevo già prima avuto occasione di parlarci a metà degli anni '80, non ricordo esattamente l'anno. Un bell'impatto; era un attore ma lo percepii come uno scrittore, del resto era un grande artista colto, cosa non frequente, autore raffinato controcorrente soprattutto non allineato e capace di energia medianica. Ricordo il modo in cui portava una delle sue sciarpe eleganti al collo nonostante fosse un clima già estivo. Il mondo è oggi meno bello. Mi spiace moltissimo. E da non dimenticare Adriano. Sit tibi terra levis.

giovedì 26 maggio 2016

Il centro è dappertutto

Che cosa è centrale? Tutto è centrale, quindi anche la comunicazione via Internet non è detto che non possa esserlo, in determinate e frammentarie circostanze. Ma il centro per sua natura è mobile, non dato una volta per tutte, e la vita stessa è fatta di segmenti e microcosmi provvisori la cui forma è frastagliata e molteplice. La vita è un caos caratterizzato dall'incertezza e dall'incompletezza. Tendenzialmente il centro si identifica col tempo presente ma anche con l'esperienza passata, o immaginata, o sognata tanto quanto l'aspettativa futura (quest'ultima da non viversi con accanimento, de futuris contingentibus non est determinata veritas) o con quanto è presente nel "noi" di un vissuto comune o nel dialogo con l'assenza. Il centro è comunque e sempre dappertutto.


mercoledì 11 maggio 2016

È davvero finito l'ellenismo?

L’autore de I tre moschettieri è Auguste Maquet, quasi sicuramente ma certo non sono stati scritti da Alexandre Dumas.

Questo libro diventa emblematico della vexata quaestio riguardante la nozione di autore, su cui già Foucault si era espresso in una famosa conferenza-dibattito (Che cos’è un autore?). Anche gli antichi ci danno di questi problemi, non soltanto per la questione omerica o petroniana e ne avevano loro stessi, visto che di alcuni poeti si poteva già in età ellenistica ricostruire i dati identitari solamente per via autoschediastica, e Luca Canali si domandava da ultimo se fosse davvero mai esistito Catullo.

Ma è davvero finito l’ellenismo? In ogni caso, il vero romanzesco che si sfrena fino a diventare mito fa sì che I tre moschettieri sembrino essersi scritti da sé.

domenica 17 aprile 2016

Assemblare materiali eterogenei a Baden-Baden

1. Le Memorie letterarie e di vita di Ivan S. Turgènev (o “Turghenief”, secondo altra trascrizione; per Whitman era “Turghienef”) sono un resoconto asistematico e parziale dei rapporti con gli intellettuali che lo scrittore conobbe nella sua vita a titolo variamente amichevole: in un caso molto inimichevole (Dostoevskij: una vera inimicizia), che infatti non è presente nel testo. Che è centralmente tutto uno sdilinquirsi per Bělinskij, il critico più autorevole dell’epoca (1843) in cui recensì favorevolmente la sua opera prima, il poemetto Paraša: in questo dimostra riconoscenza, diversamente da quanto ha fatto Arbasino con Pasolini in Ritratti italiani.  Il libro è interessante, in primo luogo, perché intanto tutto quello che esce dalla penna di Turgènev diventa opera d’arte letteraria, qui (il volume edito in Italia da Baldini&Castoldi nel 2000) in maniera mirabile e un po’ antiquata tradotta da Enrico Damiani. In secondo luogo, questa specie di zibaldone autobiografico si lascia leggere con piacere e curiosità sia per le omissioni (ancora una volta Dostoevskij, che fece di lui una brutta caricatura nel personaggio di Karmazìnov ne I demoni, uno scrittorello; Tolstoj e Gončarov) sia per la confusione tra letteratura e vita.

Molti elementi delle memorie di vita andrebbero nelle memorie letterarie, e viceversa. Non parla nemmeno di Flaubert che pure fu suo amico ma essendo francese, è escluso dalle memorie. Eppure Turgenev era occidentalista, al contrario di Dostoevskij, che era slavofilo.

Dei poeti e scrittori presi in esame nelle memorie letterarie si dà una testimonianza a prima vista tristissima nei loro angosciosi particolari biografici, ma un pregio della prosa di Turgènev è saper restituire bellezza e fiducia nella volubil-vile-torbida natura umana, a dispetto di tutta quella desolazione.

2. Il titolo è dunque, in parte, fuorviante, le memorie di vita riguardano a loro volta nemmeno la letteratura ma la politica del suo tempo. Nella seconda parte, troviamo interventi di Turgènev su questioni di attualità, come lettere a giornali o storie parigine sottoforma di testo narrativo.

In particolare, L’esecuzione capitale di Troppmann è una cronaca giornalistica scritta a Weimar nel 1870 e inclusa nelle memorie di vita.

Queste proseguono con altri racconti indipendenti l’uno dall’altro e si concludono addirittura con un Frammento d’un romanzo inedito, che ci si aspetterebbe di vedere collocato nella prima parte, dove non aveva ugualmente senso Una gita in Albano e a Frascati, più attinente alle memorie di vita. Insomma le memorie di Turgènev non sono scritte al modo delle Confessioni di Rousseau, secondo una classica sequenza lineare-progressiva delle vicende rievocate.

Tutta questa eterogeneità di materiali, assemblati a Baden-Baden tra il 1863 e il 1869, tra la redazione di altre opere del periodo, se da una parte lascia sconcertati per la mancanza di un evidente criterio logico e cronologico, dall’altra affascina per l’audacia della sperimentazione e per il significato della polemica indiretta che essa implica.

Da più di un secolo le narrazioni storico-cronologiche non sono più necessarie nel canone occidentale, né lo erano nel romanzo antico. Si consideri che nessuno scrittore russo dell’ottocento è stato più controverso e contestato di Turgènev, ritenuto da “sinistra” reazionario e da “destra” indulgente verso il nuovo, e con la pubblicazione di Padri e figli si era inimicato tanto la vecchia quanto la nuova generazione.






martedì 12 aprile 2016

a K.

                                 a K.

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d’un greto,
esiguo specchio in cui guardi un’ellera i suoi corimbi;
e su tutto l’abbraccio d’un bianco cielo quieto.

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,
e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d’una giovinetta palma.

Eugenio Montale, da Ossi di seppia  





domenica 10 aprile 2016

Sergius Sobolevskius loquitur et Michael Pokrovskius

S. – […] penitus quidem veterum lectione imbuendi sumus, recentiores tamen sedulo evolvendi sunt vel eo consilio, ut ad antiquos quasi per gradus quosdam ascendamus. nam Ciceronis splendor ita primum oculos perstringit, ut caecutiant aspernentque caeleste illud lumen. itaque clarae luci paullatim recentiorum lectione assuescendum; quare non absurde Wyttenbachius, qui sese ad latinitatis studium quodammodo magis legendis Mureti orationibus, quam ipsius Ciceronis excitatum fuisse fatebatur, et si quid ad scribendi facultatem profecisset, eius se magnam partem Mureto debere, et memini me Petrarcae lectione primum impetum ad Ciceronem legendum cepisse.

Helgus Nikitinski, Sergius sive de eloquentia grammaticorum libri duo, I, pp. 25-27.















venerdì 8 aprile 2016

Τὴν δὲ σοφίαν ἔν τε ταῖς τέχναις τοῖς ἀκριβεστάτοις τὰς τέχνας ἀποδίδομεν

Τὴν δὲ σοφίαν ἔν τε ταῖς τέχναις τοῖς ἀκριβεστάτοις τὰς τέχνας ἀποδίδομεν, οἷον Φειδίαν λιθουργὸν σοφὸν καὶ Πολύκλειτον ἀνδριαντοποιόν, ἐνταῦθα μὲν οὖν οὐθὲν ἄλλο σημαίνοντες τὴν σοφίαν ἢ ὅτι ἀρετὴ τέχνης ἐστίν· εἶναι δέ τινας σοφοὺς οἰόμεθα ὅλως οὐ κατὰ μέρος οὐδ' ἄλλο τι σοφούς, ὥσπερ  Ὅμηρός φησιν ἐν τῷ Μαργίτῃ
τὸν δ' οὔτ' ἂρ σκαπτῆρα θεοὶ θέσαν οὔτ' ἀροτῆρα
οὔτ' ἄλλως τι σοφόν.

Aristotele, Etica Nicomachea, Z, 7, 1141a 9-14

«Noi attribuiamo la sapienza nelle arti a coloro che raggiungono la più alta maestria nelle loro arti : per esempio, diciamo che Fidia è uno scultore sapiente e Policleto un sapiente statuario, indicando qui con “sapienza” nient’altro che l’eccellenza in un’arte. Ma non pensiamo che ci siano degli uomini sapienti in senso onnicomprensivo e non sapienti solo in un campo particolare o in una cosa determinata, come dice Omero nel ‘Margite’:
“costui gli dèi non lo fecero né zappatore né aratore né sapiente in qualche altra cosa”.»

VI, 7, 1141a 9-14, trad. Claudio Mazzarelli,
Bompiani Testi a fronte, 2007, direttore Giovanni Reale, segretari: Vincenzo Cicero, Giuseppe Girgenti, Roberto Radice




giovedì 7 aprile 2016

Giovedì 7 aprile 2016

Incontrare, per caso, una vecchia conoscenza, scambiarlo per un poeta, ricevere la risposta che no, non è un poeta. Col passare del tempo i volti, i nomi, le situazioni si sovrappongono, e degli stessi avvenimenti, in un confronto ravvicinato, si hanno versioni contrapposte. Mi è già accaduto. Del resto non esistono fatti, come si sa, ma solo interpretazioni. E, fatti i nomi di altri conoscenti e/o amici comuni, è infine emerso che, in passato, la persona in questione aveva scritto alcune poesie, e mi ha citato anche un'antologia in cui quelle sono state raccolte. Del resto tutti sono poeti, o dovrebbero esserlo, ma la mia intuizione non mi aveva ingannato, può darsi che fosse in incognito o che non si consideri un poeta. Comunque ci conoscevamo. Ma ora mi sorgono dei dubbi: con chi ho realmente parlato?


martedì 5 aprile 2016

Homuncionem lepidissimum!

Umile e ingrata fu, all’inizio, l’attività pratica cui si dedicò Quinto Orazio Flacco, appena arrivato a Roma. Più tardi si sarebbe rifiutato di fare il segretario del principe, che scherzosamente lo soprannominava “membro purissimo”, purissimum penem, secondo quanto racconta Svetonio, o tutt’al più “lepidissimo ometto”, homuncionem lepidissimum. Era un ometto ridicolo, piccolo e obeso. Di modesta estrazione sociale, faceva lo scriba quaestorius per sopravvivere. E nient’altro sembrava avere importanza attraverso quell’impiego nell’amministrazione del fisco, ottenuto dietro l’interessamento di Asinio Pollione: un lavoro come ogni altro, del resto, e lontano dalla letteratura. Nemmeno aveva abbandonato quest’ultima, dopo essere stato ad Atene, nonostante l’audax paupertas e, si direbbe, proprio grazie a quella. Il futuro sarebbe stato illecito sapere - scire nefas! – e, proprio in questo periodo, maturò la conversione definitiva all’epicureismo, rivissuto alla sua maniera, del tutto personale, con influssi lucreziani (cfr. Sermones I, 3 ma anche I 2 e I 8).





giovedì 31 marzo 2016

uno spirito convinto che l’appello sia illusorio

«In base a che cosa potete decidere che una vocazione è autentica, dal momento che secondo voi, se ho afferrato bene il vostro pensiero, non c’è voce che, di lassù, chiami colui che crede di udire questa voce abbastanza nettamente per obbedirle? e la Chiesa che, tutta intera, si è levata all’appello di quella voce e che accoglie coloro che obbediscono all’appello, come può pensare di venire a consultare uno spirito convinto che l’appello sia illusorio e che la voce non abbia mai chiamato?» «Io non discuto la realtà del fenomeno né la sua espressione nel mondo che l’uomo ha costruito a partire da un tale fenomeno, il punto non è qui; gli attribuisco un’altra origine, origine che ritrovo nelle forze che abitano lo spazio infinito e irriducibile della psiche umana. È per questo che mi è possibile intendermi, in una certa misura, con la Chiesa, e la Chiesa da parte sua mi dà fiducia e apprezza il mio punto di vista quando si tratti di capire se, in una persona, non ci sia nulla che le impedisca di morire completamente al mondo, di aderire a questa morte senza che questa morte e l’abito che la rappresenta  agli occhi degli altri uomini come di colui che osa portare l’abito, senza che tutto questo sia una mascherata, un travestimento di una delle forze dell’anima rispetto a un’altra forza dell’anima. In poche parole, perché ci sia vocazione autentica – non riesco a usare altro termine se non quello che è tradizionale – perché ci sia risposta valida all’appello, occorre avere compreso il Maestro quando ci invita a seguirlo; che altro vuol dire: obediens usque ad mortem crucis, se non che con tutta l’obbedienza di un figlio amoroso, egli ha, sulla croce – questo letto nuziale – abbracciato sua Madre, la Morte, alla quale ci ha convitati». «Volete dire che la Chiesa… - domanda Jérôme, - volete dire che Nostra Santa Madre Chiesa non sarebbe che l’immagine…»  «La Chiesa non dice che cosa essa è, - dice Persienne, - ma sa che io lo so».

Pierre Klossowski, La vocazione interrotta, a cura di Guido Neri, Einaudi 1980, pp. 54-55




Il fascino dell'inespresso

La lunghezza d’onda passa al di là di corpi e luoghi, specie quando sussistono affinità elettive. Perciò gli amori mentali sono i più belli, pur non annettendosi fisicità su nessun piano.



martedì 29 marzo 2016

appari, come vorresti essere

«[18]

Socrate: sii come vorresti apparire: il criterio è l’apparenza.
Machiavelli: non curarti di chi e di come sei; se puoi soltanto apparire, sembrare. Nella sfera in cui agisci non importa che cosa sei. Ergo: appari, come vorresti essere.»


Hannah Arendt, Quaderno XXI


lunedì 28 marzo 2016

Marie-Jeanne Roland de la Platière

«Madame Roland, sul patibolo, chiese materiale per scrivere, per annotare i singolarissimi pensieri che le erano venuti nell’ultimo tragitto. Peccato che glielo si sia rifiutato! Giacché alla fine della vita vengono alla mente in sé raccolta pensieri fino allora impensabili. Essi sono come demoni beati che si assidono risplendendo sulle cime del passato.»


Goethe, da Kunst und Alterthum, secondo fascicolo del quinto volume, (Detti sparsi), 1925, in Massime e riflessioni, 258



venerdì 25 marzo 2016

Venerdì, 25 marzo 2016

Sono tornato indietro nella mia decisione, che era piuttosto una curiosità, di andare a vedere La macchinazione. Massimo Ranieri è anche un bravo attore ma lo vedo improbabile nei panni di Pasolini. Non mi entusiasma affatto il sensazionalismo, la spettacolarizzazione dell’omicidio, il cercare a ogni costo un complotto politico. Aveva ragione Moravia, dopotutto: fu un incidente, come andare sotto un tram. 


giovedì 24 marzo 2016

LENTA GINESTRA di Toni Negri/1

1. Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi (Mimesis, 2015) di Antonio Negri è un libro corposo dalle molteplici possibilità interpretative, dichiarate e non, che ha già dato l’abbrivio a una varietà di letture e silenziamenti evidenziati dallo stesso autore nella prefazione alla seconda edizione.
Di fondamentale importanza è il nesso che viene a stabilirsi tra il pensiero leopardiano, a partire dalla canzone All’Italia, e la cultura europea. L’Italia non vi aveva più partecipato dall’età rinascimentale, dopo le angustie del seicento e l’opera esteticamente futile, sia pure storicamente basilare per i poeti successivi, del Marino e soprattutto dopo le vicende violentemente censorie e repressive toccate a Galileo e Bruno. Tuttavia Negri salta - e si capiscono i suoi motivi - per arrivare a Leopardi tutta la grandiosa esperienza di Parini (tutto sommato organico all’aristocrazia italiana e all’Austria, a mio avviso, ma coi risultati estetici che conosciamo) e del neoclassicismo italiano, compreso Foscolo (poeta civile di destra). Alla base del fare poetico c’è la memoria. Ma si capisce presto che tanto quella di Leopardi quanto quella di Negri è una rivendicazione dell’essere e insieme una riorganizzazione del piano della storicità individuale e dunque comune e politica. La demistificazione è il lavoro della critica, che ha un tessuto etico, perché l’etica «è la forza che controlla, e comunque organizza, le dimensioni ontologiche del tempo: tempo della demistificazione; tempo del lavoro critico, tempo della verità» (p. 42). Ma come si definisce la categoria del tempo in Leopardi?
In primo luogo, il tempo leopardiano è il tempo della filologia classica. Una volta che il tempo storico si è fatto dimensione critica, il passaggio dalla filologia alla filosofia è stato inevitabile, esattamente con la Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno 1811 e la Dissertazione sopra l’origine e i primi progressi dell’astronomia (entrambe del 1814). Più difficile è seguire Negri quando accosta, per identità di temi - problema tutto da porre, per sua stessa ammissione, - l’illuminismo leopardiano agli esiti teorici di Francoforte, però almeno con un’obiezione che l’autore stesso previene affermando che «la critica dei francofortesi riguarda la “sussunzione reale” della società del capitale, quella di Leopardi solo la “sussunzione formale”» (p. 45, n. 27). In secondo luogo, il tempo interiore, strutturalmente assunto, rifluisce nell’oggettività dell’essere. Non è operazione nostalgica di recupero del mito antico tramite l’idealizzazione. Il suo classicismo è antiromantico e, nella posizione che prende durante la querelle, garanzia contro l’inevitabile fallimento del romanticismo che pure si sarebbe riverberato successivamente nello sperimentalismo inquieto ma strutturato del Carducci barbaro.   
Per la verità, questa contrapposizione tra classico e romantico è un’insensatezza. Tanto il classicismo quanto il romanticismo sono astrazioni dal momento che tanto la storia e la fantasia quanto la natura e il sentimento sono presenti nella strutturale complessità della letteratura. Leopardi ha la geniale originalità di riformulare i termini del dibattito: «Il concreto del fare poetico vive positivamente non di queste alternative ma del congiungersi delle polarità. “La natura non si palesa ma si nasconde” e solo la fantasia della naturalezza e le forme storiche della convivenza sapranno rivelarla al poeta» (p. 79). E infatti la ripresa del mito antico deve risiedere, introiettata nel tempo interiore attraverso la memoria, in nessun altro luogo che nel quotidiano senza alcun movente dialettico nei rapporti con la storia contemporanea.

2. Andando avanti nella lettura ci accorgiamo di una sovrapposizione di cui avevamo precedentemente avuto il sospetto:  stiamo parlando di Leopardi o di Negri? Non c’è dubbio che esista nel testo una consonanza tra i due autori, in specie per quanto riguarda la dialettica prigione/liberazione (Recanati/fuga, prigione di Negri/libertà), essendo legittima l’identificazione che rimanda a una nuova interpretazione. E questo di Negri è proprio un Leopardi antidialettico. Il suo è storicamente il tempo della dialettica, o che tra poco avrebbe scoperto la dialettica (idealistica). Ponendosi al di là di essa, Leopardi rompe col proprio tempo rivendicando l’ultimo orizzonte (interrotto dalla siepe de L’infinito) dell’essere, ma dell’essere pretende le infinite possibilità nella finitudine e non nelle dimensioni rarefatte e platoniche, astoriche, del mito delle Grazie foscoliane (lasciate però, non a caso, incompiute - finite ma non terminate, come scriveva – dal poeta ben consapevole dell’impossibilità della poesia antica in epoca contemporanea).
Ecco paradigmaticamente l’ambivalenza di Negri, non in conseguenza di una qualche ambiguità del dire (le cose vanno dette sempre in modo chiaro ma non necessariamente univoco) bensì in ragione di una valenza pluralistica insita nell’argomentazione: «Ne viene una terza complementare caratteristica del pensiero di Leopardi. [...] Non è un pensiero progressista perché non è un pensiero storicista. Luporini, Binni e altri autori hanno spesso dimenticato, nel condurre un’orgogliosa e giusta battaglia antiformalista, la rigidità del nesso fra storicismo e progressismo. [...] Aggiungiamo che il nesso materialismo-catastrofe non può in nessun modo essere interpretato in forma reazionaria: non perché il concetto di reazione sia, al pari di quello di progresso, privo di senso in riferimento alla lirica leopardiana ed ai suoi contenuti parziali - ma perché il nesso catastrofico scoperto e organizzato dal materialismo si oppone ad ogni pratica restaurativa, alla ripetizione del tempo storico, alla stereotipa resistenza del passato. La catastrofe è contro la reazione» (pp. 93-94).
Insomma è come se Leopardi pretendesse di essere un poeta greco all’interno della finitezza spazio-temporale, quasi fin dentro le angosce del carcere recanatese e dal carcere non solo tenta la fuga e in seguito effettivamente uscirà, ma nel carcere vive l’esperienza della liberazione o, meglio, della libertà del tempo interiore senza la minima tensione illusoria di carattere metastorico o idealistico.
È ormai così oltre la crisi: la sua vicenda ora è inserita nel destino comune. Questa svolta è databile nella lettera al Giordani del 19 novembre 1819. Giacomo ha ventun anni. La consapevolezza che il tutto è nulla non esclude la seconda natura, data dalle illusioni. La prima natura le concede a tutti e in qualsiasi circostanza, ed è qui che si fonda il reale.
Leopardi elabora una critica antikantiana della ragione, lontana anche da Rousseau se è vero che Rousseau ha aperto all’idealismo. La funzione critica dell’illusione, prodotta dalla prima natura, è contraria alla ragione. In altri termini, la ragione e non la natura, in questa fase, è corruttrice delle lettere italiane – Negri legge: del costume italiano, essendo le lettere espresse dal costume.