lunedì 30 maggio 2016

Lunedì 30 maggio 2016


Vengono tante di quelle idee in biblioteca, una raffica di idee e teorie estemporanee delle quali alcune svaniscono dopo pochi secondi per la loro infondatezza, altre magari erano valide ma volano via, altre ancora le appunto atecnologicamente a mano su due quaderni, uno più piccolo e un altro grande, e anche tecnologicamente sul tablet, che alla fine mi domando se tra tanto materiale non sia sufficiente aver solo pensato. Ma la risposta è no, non mi piace lasciare le cose incompiute, e lo scopo di quegli appunti è l’elaborazione successiva.

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Je m'en fiche

Di fronte all’invidia altrui non si sa mai come regolarsi. In linea di massima, l’invidia va ignorata. Forse perché è un sentimento subdolo - degradante per primo per chi lo prova, ma cazzi suoi, - non lo capisco in quanto non lo provo, e siccome non lo provo mi è pure difficile riconoscerlo negli altri. Ma certamente non mi abbasso a tanta inferiorità d’animo da elaborare un comportamento sullo stesso piano che dovrebbe presupporre in primo luogo un dialogo su una parità di livello che non riconosco. Se mi si estorce tale parità (la vita è fatta di tanti casi e contesti e situazioni, che magari succede anche questo) non ha alcun valore e resta il fatto che è stata estorta e quindi bella forza! non c’è stato nessun mio riconoscimento: dove risulterebbe? Posso tutt’al più, di rado, provare ammirazione ( sono abbastanza nobile da non andar elargendo ammirazione a tutto spiano), che è un’altra cosa e quando c’è è un piacere esternarla. Oppure mi regolo al momento: se la persona mi è simpatica (esistono invidiosi simpatici? talvolta; è un ossimoro ma la vita è piena di contraddizioni) arrivo anche a simulare una parità di grado e la cosa perfino mi diverte e la prendo come un esercizio dialettico o teatrale. Tanto non era vero niente, almeno da parte mia, soprattutto là dove ogni parlare è vano. Altrimenti, se mi è antipatica, dipende dalle circostanze: o arrivo alla guerra aperta, che tuttavia deve essere degna di venire combattuta: talora lo è; non mi dispiace litigare; ma bisogna scegliersi un nemico valoroso, se no non ne vale la pena; oppure, ignoro e passo oltre. E la maggioranza delle persone che incontriamo quotidianamente, compresi i simulacri vagolanti per questo social, sono qualcosa che deve essere superato. In linea di massima, je m’en fiche.


Giorgio Albertazzi

Cinematograficamente con Resnais aveva dato il massimo. Avevo visto Giorgio Albertazzi varie volte, ricordo un Re Lear prodigioso, credo nei primi anni '90, alla Reggia di Caserta, poi insieme alla Proclemer (lei superba) in una Lectura Dantis. Televisivamente il Jekyll con la sua regia è un capolavoro. In particolare, avevo già prima avuto occasione di parlarci a metà degli anni '80, non ricordo esattamente l'anno. Un bell'impatto; era un attore ma lo percepii come uno scrittore, del resto era un grande artista colto, cosa non frequente, autore raffinato controcorrente soprattutto non allineato e capace di energia medianica. Ricordo il modo in cui portava una delle sue sciarpe eleganti al collo nonostante fosse un clima già estivo. Il mondo è oggi meno bello. Mi spiace moltissimo. E da non dimenticare Adriano. Sit tibi terra levis.

giovedì 26 maggio 2016

Il centro è dappertutto

Che cosa è centrale? Tutto è centrale, quindi anche la comunicazione via Internet non è detto che non possa esserlo, in determinate e frammentarie circostanze. Ma il centro per sua natura è mobile, non dato una volta per tutte, e la vita stessa è fatta di segmenti e microcosmi provvisori la cui forma è frastagliata e molteplice. La vita è un caos caratterizzato dall'incertezza e dall'incompletezza. Tendenzialmente il centro si identifica col tempo presente ma anche con l'esperienza passata, o immaginata, o sognata tanto quanto l'aspettativa futura (quest'ultima da non viversi con accanimento, de futuris contingentibus non est determinata veritas) o con quanto è presente nel "noi" di un vissuto comune o nel dialogo con l'assenza. Il centro è comunque e sempre dappertutto.


mercoledì 11 maggio 2016

È davvero finito l'ellenismo?

L’autore de I tre moschettieri è Auguste Maquet, quasi sicuramente ma certo non sono stati scritti da Alexandre Dumas.

Questo libro diventa emblematico della vexata quaestio riguardante la nozione di autore, su cui già Foucault si era espresso in una famosa conferenza-dibattito (Che cos’è un autore?). Anche gli antichi ci danno di questi problemi, non soltanto per la questione omerica o petroniana e ne avevano loro stessi, visto che di alcuni poeti si poteva già in età ellenistica ricostruire i dati identitari solamente per via autoschediastica, e Luca Canali si domandava da ultimo se fosse davvero mai esistito Catullo.

Ma è davvero finito l’ellenismo? In ogni caso, il vero romanzesco che si sfrena fino a diventare mito fa sì che I tre moschettieri sembrino essersi scritti da sé.